Il tempo si marca a uomo, altrimenti ti frega e magari finisce in porta. Ma in porta da 80 anni (oggi, auguri) c’è un guardiano imperturbabile che non lo lascia passare. Sta lì e non si sposta. Il tempo arriva e cambia direzione. Ha smesso di tuffarsi, ma gli basta vigilare: finché c’è lui, nessuno oserà oltrepassare la riga bianca. Anche adesso che la porta sembra sguarnita e il guardiano può solo scrutarla dal suo appartamento del Flaming, a Roma. Quando si affaccia per guardare oltre, davanti ai suoi occhi - due fessure in perpetua penombra - si spalanca una messe di ricordi. È un sorvegliante rigoroso e discreto Dino Zoff, il portiere per antonomasia. Il portiere di tutti i portieri. Il n. 1 per eccellenza. Per oltre 40 anni (mezza vita) tra i pali e sotto il tetto di una traversa a fare il suo dovere: a custodire la soglia tra la luce e il buio, tra il visibile del gol e l’invisibile del non-gol. A parare per togliere la palla dal gioco. Perché un portiere quello fa: sottrae, spegne, interrompe, blocca. Ultimo baluardo, prima che tutto si compia. Là dove l’azione finisce (e anche il tempo tende a sgretolarsi), si trova il portiere. Solo con se stesso. Intorno alla sua solitudine è fiorita una vasta mitologia.
I portieri non hanno età, anche se giocano sino a quarant’anni e si chiamano Dino Zoff. Stanno dentro una spensierata giovinezza che si prolunga, che si rinnova, che si propaga. Eterna. Un mistero difficile da spiegare. Istinto, esuberanza, coraggio, incoscienza? È una questione irrisolta quella di chi sceglie di stare in porta, dove spesso si finisce per caso.
Zoff, in porta, ci è finito perché era destino. Non poteva sfuggirgli. Speciale, unico, irripetibile. Non esiste aggettivo che possa raccontarlo per intero. Zoff è troppo e non ha eredi. Non può. Smisuratamente larga la sua porta, impossibile per un portiere “normale” occuparla e difenderla come ha fatto lui in un oceano di partite (570 in serie A, 112 con la maglia della Nazionale). Ha vinto tanto: con l’Italia un Europeo (1968) e un Mondiale (1982), con la Juventus sei scudetti, due Coppe Italia, una Coppa Uefa. A lungo detentore di record d’imbattibilità di cui nemmeno si curava. E ineguagliabile costruttore di portieri di riserva. In Nazionale sbarrò la strada a Bordon e Castellini. Con la maglia bianconera, negò la luce della prima squadra a Piloni, Alessandrelli, Bodini, trasformandoli in dodicesimi a vita. Inossidabile Zoff, capace di collezionare 332 presenze consecutive senza infortunarsi. Come avrà fatto?
Zoff il mito. Zoff il mite. Uomo schivo e riservato. Abituato a centellinare le parole, mormorandole quasi senza muovere le labbra. «Meglio tacere piuttosto che dire banalità». Zoff parla poco. Ma quando parla, dice. C’è differenza. Parlò, dicendo, e fu creduto dal mondo intero, anche quel pomeriggio di 40 anni fa allo stadio Sarrìa di Barcellona. Quando, rialzandosi dopo aver catturato la palla, con una specie di parata all’indietro, disse «no», non è entrata. Lo disse senza urlare, non ce n’era bisogno. Fece segno con la mano, cancellando l’esultanza illusoria dei brasiliani, convinti di avere trovato il gol del pareggio, che a loro bastava per accedere alla semifinale con la Polonia. E, invece, no. È ancora, e lo sarà per sempre, Italia-Brasile 3-2. Perché il «no» di Zoff vale una sentenza, non si può discutere. Se lo dice lui, conviene credergli.
Quel balzo soprannaturale, nella bolgia incandescente del Sarrìa, mentre la palla stava schizzando verso l’angolo alla sinistra di Zoff, è la dimostrazione che il calcio, per i custodi della porta, è tutta una faccenda di linee e tempo. E che solo un predestinato come Zoff poteva dare l’impressione di non poterci arrivare su quella palla, prima di afferrarla, avvinghiandosi ad essa, con la faccia rivolta alla rete.
Uomo di proverbiali silenzi, Dino Zoff. Silenzi che fanno rumore. Come certe sue decisioni. Come quando, alla fine di un allenamento, disse basta: non gioco più. Oppure quella volta che, colpito dalla durezza delle critiche di Berlusconi, dopo la finale dell’Europeo persa ai supplementari con la Francia, si dimise da ct della Nazionale. Perché c’è una sola parola alla quale Zoff è affezionato. E quando la usa, lo fa per spiegare che non è in vendita. È la musa che continua ad ispirare il suo vivere. Quella parola è: dignità.