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La «Società dei picciotti» era la camorra di Barletta

 
Giuseppe Dimiccoli

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Giuseppe Dimiccoli

La «Società dei picciotti» era la camorra di Barletta

Stefano De Carolis, sottufficiale del Carabinieri e giornalista, ha scritto il libro «L’infame Legge. Storia della camorra Pugliese» 

Venerdì 09 Giugno 2023, 11:13

«Dopo tanto terrore e sconcerto tra la popolazione, finalmente l’Arma dei Carabinieri Reali, a seguito di una diligente e certosina indagine, durante una perquisizione venne in possesso di una dirimente prova indiziaria che accertava la presenza nel territorio del sodalizio criminale che infestava parte della provincia di Bari ovvero il sequestro dello statuto della “Società dei picciotti di Barletta”».

È una vera «chicca» quella che racconta il poliedrico giornalista Stefano De Carolis nel suo ultimo libro «L’infame legge. Storia della camorra in Puglia» edito da Giazira Scritture in merito a quello che avveniva a Barletta il 15 luglio 1889 allorquando «i Carabinieri Reali – guidati dal capitano Rombi, comandante della compagnia dei Carabinieri; dal Maresciallo Lodovico Gardini e dal Brigadiere Bartolomeo De Regibus – unitamente ad altri militari delle stazioni limitrofe, si portarono presso l’abitazione di Ruggiero Farano, un camorrista di Barletta e, a seguito di una accurata perquisizione domiciliare, rinvennero e sequestrano una copia dello statuto della associazione, celata all’interno della tasca di un vecchio pastrano conservato in un comò».

È importante sottolineare che le figure presenti nello Statuto si dividevano in due parti: «zappatori» e «facchini».

De Carolis, sottufficiale dell’Arma dei Carabinieri, è un appassionato e meticoloso ricercatore storico, cultore di storia patria, specializzato nella tutela e salvaguardia del patrimonio culturale nazionale presso il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo del MiBACT di Roma, già in servizio presso il Comando carabinieri tutela patrimonio culturale. In questo lavoro è riuscito a leggere il fenomeno malavitoso con grande perizia offrendo al lettore una chiave di lettura del presente che muove i suoi passi in una sorta di «corsi e ricorsi malavitosi» di vichiana memoria.

Precisa: «Leggendo queste linee guida della consorteria eversiva, si apprende che gli adepti, alla presenza dei capi camorristi, dopo la lettura dello statuto fatta dal segretario della società, dovevano prestare giuramento sul pugnale: “Giuro di abbandonare la famiglia e parenti e tenere un piede alla catena e l’altro alla fossa”. Il loro motto era “L’infame legge”. Gli affiliati, sotto la direzione dei capi, dovevano costantemente allenarsi alla scherma con il pugnale, con il coltello e il bastone, in modo da essere pronti qualora gli avversari avessero opposto resistenza e negli eventuali scontri con la forza pubblica. Tutti dovevano frequentare la casa dei capi per ricevere ordini e ai capi si doveva ricorrere per qualsiasi bisogno. I picciotti e i camorristi, per le vie della città, dovevano camminare a gruppi, seguiti da altri gruppi, che in caso di conflitti fornivano i giusti mezzi di difesa. Inoltre, quando subivano un torto o un affronto, era imperativo vendicarsi in modo determinato e sanguinario. Per i piccoli furti erano destinati i giovanotti. I doveri degli affiliati erano l’ubbidienza passiva ai capi, il saluto riverente agli stessi, il pagamento di una tassa settimanale di 15 centesimi per la formazione di un fondo cassa, destinato alle spese di difesa di coloro che venivano arrestati. La violazione dei segreti dell’organizzazione veniva punita con la morte; per omissioni di minore gravità la condanna era il taglio del viso, il cosiddetto “sfregio”. A seguito della scoperta dello statuto, ci furono molti arresti eseguiti dai Carabinieri Reali; parecchi ricercati si dettero alla latitanza, ma successivamente vennero tutti assicurati alla giustizia. Quattro degli affiliati collaborarono con gli inquirenti, rivelando e chiarendo meglio lo scopo dell’associazione, i metodi utilizzati per la consumazione dei reati e le modalità della distribuzione dei profitti illeciti. Dagli scopi criminali dell’associazione nessun delitto era escluso, principalmente il furto, la rapina, l’estorsione, la prepotenza, i reati di sangue e le vendette nell’interesse del sodalizio».

De Carolis, con dovizia di particolari, narrando i vertici del sodalizio criminale aggiunge «Il capo dell’associazione dei picciotti di Barletta, che imperversavano nella Città della disfida e dintorni, era tale Vincenzo Corvascio, un bracciante di Barletta più volte arrestato e condannato per diversi reati. A riprova della sua influenza, quando mise piede nelle carceri di Barletta, i detenuti suoi affiliati espressero piena soddisfazione nel vederlo e, all’unisono, esclamarono ad alta voce: “Compà Vincenzo, anche tu qui? Vogliamo mastro Andrea il cassiere”. Ai vertici dell’organizzazione criminale, in qualità di capi inferiori, c’erano Ruggiero Farano, Gaetano Turso, Ruggero Di Staso, Paolo De Fazio, Andrea Rodriquez, Damato Nicola, Elia Palmitessa, Gaetano Di Lillo, Riccardo Cristallo, Ruggiero Vitobello e Dimatteo Michele. Gaetano Turso, un delinquente abituale di pessima condotta, figurava a capo degli “zappatori”: spesso si vedeva gironzolare per la città di Barletta con i gruppi di picciotti. Una volta, davanti al caffè di Francesco Ladogana, diresse un combattimento con il coltello e il pugnale (zumpata) tra alcuni picciotti. Andrea Di Costanzo, affiliato con il grado di camorrista, era uno degli ispiratori e organizzatori dell’associazione barlettana. Originario di Casoria (in provincia di Napoli), ma residente a Barletta, era un assiduo frequentatore della casa di Vincenzo Corvascio, il capo camorrista. Era rinomato come grande esperto di scherma con il coltello e infatti era uno degli istruttori della società dei camorristi. Spesso e volentieri nelle bische clandestine, nelle osterie e nelle bettole usava prepotenza e arroganza d’ogni tipo. Nella città di Barletta tra la gente si vantava di essere un camorrista napoletano, nipote del famigerato Ciccio Cappuccio. Era sempre presente durante i riti di affiliazione e nell’ambiente criminale si vociferava che amoreggiava con la sorella di Vincenzo Corvascio. Non appena venne a conoscenza degli arresti dei suoi compagni, si diede alla latitanza. Ruggero Di Staso era privilegiato per portare a termine difficili imprese criminali, soprattutto nel settore del gioco d’azzardo. Vari aneddoti ne descrivono le arbitrarie angherie: ad esempio, risulta agli atti che il 21 luglio 1889 tale Michele De Giorgi, assieme ad amici, vinse il premio messo in palio dalla cuccagna, consistente in alcuni caciocavalli; appena scese dall’albero, Di Staso si avvicinò e con prepotenza gli tolse i caciocavalli vinti. Anche gli altri amici del Di Giorgio vennero rapinati dei loro premi. Paolo De Fazio era il capo dei picciotti di Barletta. Durante il processo, quando gli venne mostrato lo statuto dove era annotato anche il suo nome, disse: “Quell’infame e imbecille di Farano ha segnato il mio nome per disprezzo! Egli è venuto spesso a casa mia a chiedere i soldi”».

Insomma non è cambiato niente.

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