LEO MAGGIO
«Dopo quasi quattro anni abbiamo un nuovo rinvio a giudizio, sono soddisfatto parzialmente perché è innegabile che i responsabili sono anche gli altri due medici del pronto soccorso». Il dolore è una ferita che non si rimargina per Giuseppe Lepore, il papà di Valeria, la 27enne di Toritto agente di polizia penitenziaria, scomparsa nel luglio 2014 per una infezione da calcolo renale.
L’altro giorno, il Tribunale di Taranto ha disposto l’imputazione coatta per omicidio colposo a carico di un medico e l’archiviazione per altri due medici, nell’ambito di uno dei procedimenti avviati dopo la morte della giovane. «Si tratta di un ripescaggio, come quello che avviene in politica» il duro commento del padre.
Valeria Lepore morì l’11 luglio 2014. Era in vacanza con la famiglia nella zona di Manduria quando dopo aver avvertito forti dolori all’addome fu portata immediatamente al pronto soccorso. Vi entrò in codice verde con una diagnosi di calcoli renali. Successivamente fu trasferita a Taranto. Poi a Bari. Ma dopo tre interventi chirurgici e quaranta ore di agonia in tre diverse strutture sanitarie, la giovane donna morì lasciando oltre a dolore e rabbia una serie di inquietanti interrogativi ancora aperti. A sollevare i dubbi è proprio il padre della giovane: «Nel pronto soccorso di Manduria mia figlia è entrata alle ore 2.30 – spiega - ma solo alle 10.41, cioè con 8 ore di ritardo rispetto ai protocolli ufficiali, sono stati fatti i primi prelievi. In quella fase – aggiunge - ogni ora che passa aumenta il fattore di rischio, è stato perso tanto tempo che ha inciso sulla morte di mia figlia».
Sciogliendo la riserva sulla opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Taranto, però, il gip Giuseppe De Francesca ha escluso la responsabilità dei due medici del pronto soccorso di Manduria che per primi ebbero in cura la ragazza, ravvisando invece presunte responsabilità nei confronti dell’urologo dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto dove la paziente fu trasferita dopo alcune ore.
Secondo il giudice, infatti, una Tac eseguita immediatamente o una adeguata terapia antibiotica avrebbero potuto consentire una diagnosi precisa ed evitare l’infezione che ha poi portato la 27enne alla morte.
Sulla vicenda pende anche un altro processo per omicidio colposo, iniziato nei giorni scorsi dinanzi al Tribunale Monocratico di Taranto, a carico del medico che eseguì il primo dei tre interventi chirurgici a cui la paziente fu sottoposta nell’arco di 40 ore. Lo stesso medico, secondo l’accusa, rischia anche un processo per falso, per aver falsificato le firme del consenso informato.
Inizialmente l’inchiesta sul decesso era stata aperta dalla Procura di Bari che aveva indagato 20 medici (per 17 c’è stata archiviazione) delle tre strutture sanitarie: il pronto soccorso di Manduria dove la ragazza si era recata per un malore all’addome, l’ospedale Maria Santissima Annunziata di Taranto e il Policlinico di Bari dove era stata poi ricoverata e sottoposta alle operazioni di rimozione di un calcolo renale, di impianto di un polmone artificiale e, infine, di craniectomia.
«Mia figlia è stata uccisa dai medici» ha sempre sostenuto papà Giuseppe, convinto che all’origine della morte della giovane donna ci sia un presunto caso di malasanità.
Per questo Giuseppe Lepore continua la sua battaglia legale. In tutti questi anni, ha studiato cartelle cliniche, atti giudiziari e consulenze mediche tanto da conoscerne a memoria ogni dettaglio. Ha anche fondato una associazione di volontariato con l’obiettivo di assistere tutte le famiglie di vittime di casi di malasanità. «Il ritardo è la parola chiave di tutta questa dolorosa vicenda – aggiunge – non solo nel pronto soccorso ma anche nella giustizia. A quasi quattro anni dalla morte di Valeria, l’inefficienza delle attività di indagine pesa ancora. La vittima di tutto questo è mia figlia ma poteva e potrebbe succedere a chiunque».
Papà Giuseppe non si dà pace e continua a chiedere giustizia: «Andiamo avanti in questa storia solo per la mia determinazione e di quella della mia famiglia, altrimenti i magistrati avrebbero archiviato tutto. E mia figlia era una dipendente del Ministero della Giustizia – conclude – ma in questa battaglia siamo stati lasciati soli».