Gli ultimi a replicare stamattina saranno gli avvocati Gaetano e Luca Castellaneta, difensori di Giacomo Olivieri. L’uomo centrale di Codice Interno ha invece deciso di non presentarsi oggi nell'aula dove, nel pomeriggio dopo le 15, il gup Giuseppe De Salvatore leggerà il dispositivo della sentenza in abbreviato sui rapporti tra mafia e politica a Bari: Olivieri - secondo i pm della Dda - avrebbe stretto un patto con tre clan per ottenere i voti necessari a far eleggere al Consiglio comunale, nel 2019, la moglie Maria Carmen Lorusso: per questo (e per un’accusa di tentata estorsione) rischia una condanna a 10 anni.
L’accusa di voto di scambio politico-mafioso, che riguarda 19 persone (tre delle quali, compresa Maria Carmen Lorusso e il padre Vito, hanno optato per il rito ordinario) è infatti quella più importante nella ricostruzione della Squadra Mobile poi trasfusa nelle accuse formulate dai pm Fabio Buquicchio e Marco D’Agostino (che hanno chiesto 108 condanne). Olivieri si sarebbe accordato con Tommaso Lovreglio (parente acquisito del boss Savino Parisi di Japigia), Michele Nacci e Bruna Montani (parenti di Andrea Montani ex boss del San Paolo) e Gaetano Strisciuglio, figlio di uno dei reggenti del clan omonimo di Carbonara, affinché reperissero voti per la moglie: in cambio avrebbero ottenuto denaro e promesse di posti di lavoro. Lovreglio, che insieme allo zio Michele De Tullio era dipendente Amtab, avrebbe poi speso la sua influenza all’interno dell’azienda comunale dei trasporti che per questo è stata commissariata a febbraio 2024, in occasione degli arresti che hanno portato in carcere la gran parte degli indagati (Olivieri è tutt’ora ai domiciliari). Ma nel processo sono imputati anche i pezzi da ‘90 dei clan baresi, a partire da Savino Parisi e suo figlio Tommaso (entrambi in carcere), per proseguire con Eugenio e Gianni Palermiti, padre e figlio, entrambi esponenti di spicco della mafia di Japigia come Mino Fortunato: per i boss, ritenuti promotori e organizzatori di un’associazione mafiosa che ha insanguinato e riempito di droga Japigia, sono stati chiesti 20 anni. Tutti i difensori, in particolare quelli di Savino Parisi, hanno contestato la ricostruzione accusatoria ritenendo non provato il ruolo dello storico boss in questa «nuova» associazione a delinquere che lui avrebbe creato e diretto mentre si trovata in carcere.
Sulle accuse relative alle condotte mafiose la dialettica processuale è stata tesa e non priva di asprezze. Nelle repliche del 10 settembre il pm Buquicchio aveva invitato gli avvocati «a non progredire nelle critiche all’ufficio della Procura o agli investigatori», chiarendo che «nessuno si accanisce» con gli imputati e avvertendo che «è molto pericoloso accusare gli avvocati dei collaboratori, dire falsamente che sono nello stesso studio». A queste affermazioni ha controreplicato la scorsa settimana il difensore di Tommy Parisi, Raffaele Quarta, contestando ai rappresentanti della Procura «la strumentalizzazione delle due condanne» riportate dal cantante neomelodico figlio del boss (per il quale sono stati chiesti 16 anni) e provocando per questo anche l’intervento del pm D’Agostino: «Le polemiche e anche determinate parole - ha chiosato il gup - non giovano al processo e all’accertamento dei fatti». Sul tema degli avvocati dei pentiti ha poi insistito anche l’avvocato Libio Spadaro, illustrando una presunta situazione di incompatibilità dei difensori (che lavorano tutti in uno stesso studio), e concludendo per l’inattendibilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia su cui si basano molte delle accuse di partecipazione all’associazione a delinquere di stampo mafioso.