BARI - È un boss di quelli con un cognome che fa paura. È in carcere da quasi dieci anni ininterrottamente e - se diventasse definitiva l’ultima condanna a 20 anni per traffico di droga e mafia - potrebbe restarci ancora a lungo. Le sue condizioni di salute, però, peggiorano giorno dopo giorno, tanto da essere costretto su una sedia a rotelle alle prese con un crollo vertebrale e, quel che è più grave, con una insufficienza respiratoria che comporta ripetutamente crisi e ricoveri. Il boss in questione è Giacomo Campanale, 53 anni, pluripregiudicato di San Girolamo. Da mesi i difensori fanno istanze per ottenere la detenzione domiciliare o il trasferimento in una struttura di cura, evidenziando - come certificato già anni fa da una perizia medico-legale - l’incompatibilità delle sue condizioni di salute con il regime carcerario. I giudici però temporeggiano e il carcere dove è detenuto, il penitenziario di Poggioreale, al quale la Corte di Appello di Bari ha chiesto di recente una relazione sul caso, non risponde.
La moglie ha paura: «Mio marito rischia di uscire dal carcere morto. Forse ha scelto un percorso di vita sbagliato, ma questo non toglie il suo diritto a essere curato. In carcere è entrato con le gambe sue e adesso sta su una sedia a rotelle. In queste condizioni non può stare in carcere. Parla al telefono con difficoltà, chiede di andare in ospedale. Non voglio che un giorno di questi arrivi la telefonata che mio marito è morto. Di chi sarà allora la responsabilità se succede qualcosa a mio marito? Per il cognome che ha non ha diritto a curarsi?».
Quella di Giacomo Campanale è una delle vite che hanno scritto un pezzo di storia della criminalità barese, quella legata alle faide tra clan. Lui, figlio di Felice Campanale, assassinato a fine agosto del 2013 a Poggiofranco in un agguato mafioso, ha sulla fedina penale condanne irrevocabili per mafia, armi e rapina (già interamente scontate) ed è attualmente detenuto a Poggioreale, il carcere di Napoli, in custodia cautelare preventiva nell’ambito del maxi processo «Vortice Maestrale» al clan Strisciuglio (in primo e secondo grado è stato condannato a 20 anni di reclusione, si attende a giorni il deposito delle motivazioni della sentenza d’appello).
Nell’ultimo decennio - da gennaio 2015 - è stato detenuto in diversi penitenziari del sud Italia, Bari, Palermo, Messina, Catanzaro e, dal 2019, Poggioreale. Già nel 2018 una perizia medico- legale attestò la incompatibilità tra le sue condizioni di salute e la reclusione in cella. All’epoca il professor Luigi Strada, nominato dai giudici baresi perché accertasse lo stato di salute del boss, rilevò una serie di «patologie ad evoluzione cronica, non più soggette a miglioramenti», e stabilì la «non compatibilità con il regime carcerario allorché l’infermità sia di entità tale per cui lo stato detentivo contribuisce, con ragionevole prevedibilità, a causare un peggioramento delle condizioni del soggetto o di non miglioramento o, pur non incidendo sulla evoluzione della infermità, sia però motivo di sofferenza non conciliabile con la salvaguardia dei diritti delle persone».
Da allora sono trascorsi sei anni, Campanale è ancora in cella e le sue condizioni di salute peggiorano. A inizio agosto, dopo una crisi respiratoria, è stato trasferito in ospedale ed è rimasto ricoverato per 40 giorni. I difensori, gli avvocati Nicola Quaranta e Carlo Russo Frattasi, sono tornati a chiedere la sostituzione del carcere con i domiciliari per consentire al boss di curarsi, evidenziando peraltro la «inoffensività» del boss, spiegando cioè che le ormai precarie condizioni di salute «annullerebbero completamente eventuali pericoli per la collettività e quindi le esigenze cautelari». Nell’ultima istanza i legali parlano di «pericolo costante, attuale e concreto di morte» del 53enne che «è gravemente malato e il carcere non può gestire le cure, come dimostrato dai ricoveri dell’ultimo periodo». Dimesso dall’ospedale il 10 settembre, infatti, alle 4 del mattino di due giorni dopo Campanale è stato di nuovo portato d’urgenza in reparto per una crisi respiratoria definita «acuta» e con la precisazione con il paziente «non risponde alle terapie». I giudici, dopo l’ennesimo sollecito degli avvocati, hanno chiesto nuovamente al carcere una relazione sulla eventuale incompatibilità del boss con la detenzione in cella. Poggioreale non ha ancora risposto.
In un momento in cui le carceri scoppiano a causa del sovraffollamento, i suicidi in cella si susseguono e la salute spesso viene negata a causa anche delle carenze di organico, quello che la famiglia del boss chiede alla giustizia è «giustizia», rispetto dei diritti, anche quelli di un mafioso.