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Bari, la biodiversità è a rischio: «Frutta e verdure antiche varietà perse per sempre»

 
Barbara Minafra

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Barbara Minafra

Bari, la biodiversità è a rischio: «Frutta e verdure antiche varietà perse per sempre»

La carota violacea di Sant’Ippazio di Tiggiano, la cicoria rossa di Martina Franca o la cicoria bianca di Tricase facevano parte della normale dieta dei nostri nonni e bisnonni ma oggi, anche a scapito di una varietà da cui passa la salute alimentare, è raro poter consumare

Martedì 10 Settembre 2024, 13:34

BARI - Il futuro della biodiversità passa anche da ortaggi tipicamente pugliesi che però è sempre più difficile trovare sul mercato, sostituiti da anonimi prodotti tutti simili per forma e sapore. La carota violacea di Sant’Ippazio di Tiggiano, la cicoria rossa di Martina Franca o la cicoria bianca di Tricase facevano parte della normale dieta dei nostri nonni e bisnonni ma oggi, anche a scapito di una varietà da cui passa la salute alimentare, è raro poter consumare.

«Solo da una ventina d’anni è stata recuperata e salvata dall’estinzione la carota di Polignano che ha radici gialle, viola e arancio. Altre specie, con tutto il loro patrimonio genetico, le abbiamo già perse come la melanzana di Monopoli, il melone di Gallipoli o quello di Morciano di Leuca. Se continuiamo a coltivare ibridi, che non danno semi, perderemo tantissime varietà tradizionali ma la biodiversità è un prerequisito per la sicurezza alimentare. Peraltro, poiché ben adattate al nostro territorio e clima, quelle locali sono anche quelle più pronte a rispondere ai cambiamenti, dalla desertificazione alla salinizzazione dell’acqua, o più resistenti a virus come il nostro barattiere che funziona da portinnesto per altri meloni più suscettibili a malattie».

Con il suo gruppo di ricerca, il prof. Pietro Santamaria, docente di Colture orticole e ornamentali nel Dipartimento di Scienze del Suolo, della Pianta e degli Alimenti dell’Università di Bari, si occupa di recupero, caratterizzazione, conservazione e valorizzazione della biodiversità delle varietà autoctone pugliesi. Ci spiega che, negli ultimi 10 anni, ha individuato oltre 600 varietà che gli agricoltori piantano e coltivano anno dopo anno, senza acquistarle da ditte sementiere. Tra queste, nessuna è stata registrata come «varietà da conservazione», dicitura che non si riferisce a quelle a rischio di erosione genetica o di estinzione ma a varietà che sono state caratterizzate e che possono essere commercializzate perché di interesse economico, scientifico, paesaggistico o culturale.

In un articolo scientifico («Il regime delle varietà da conservazione: passato, presente e futuro per la protezione e la commercializzazione delle varietà orticole in Europa») appena pubblicato sulla rivista internazionale Horticulturae, che considera la biodiversità orticola europea e suggerisce come preservarla per le generazioni future, il docente indica i limiti del regime delle varietà da conservazione, introdotto in Europa nel 1998 e recepito in Italia nel 2010.

Dall’analisi sviluppata da Santamaria con Adriano Didonna e Massimiliano Renna di Uniba e Riccardo Bocci della Rete Semi Rurali, emerge un quadro non propriamente positivo: a distanza di 25 anni dall’introduzione del regime, nel 2023 risultavano registrate solamente 191 varietà da conservazione in tutta Europa, meno di un centesimo (0,88%) di tutte le varietà registrate nel Catalogo Comune delle varietà di specie orticole (21.593 varietà). I Paesi più rappresentativi risultano Spagna e Italia, che hanno registrato 57 e 43 varietà.

Più in particolare, il caso di studio italiano offre un quadro rappresentativo del mal funzionamento del regime delle varietà da conservazione. Solo 7 regioni su 20 – prime tra tutte Toscana, Piemonte e Veneto con 22, 8 e 5 iscrizioni – hanno varietà iscritte al regime. Regioni come Puglia, Lazio e Basilicata ricche di varietà locali, invece, non hanno iscritto varietà da conservazione.

«Purtroppo – spiega il docente - non si è avuto quel cambiamento auspicato per mantenere la biodiversità nei campi».

Inoltre, è da considerare che solo 21 varietà da conservazione su 43 fanno capo ad una ditta sementiera che potrebbe avere interesse a moltiplicarne e commercializzarne il seme; le altre sono state iscritte da soggetti pubblici (università, centri di ricerca, etc.) o enti associativi (comitati, consorzi di tutela e associazioni).

Quali le ragioni dello scarso impatto di questo regime sul mercato sementiero? L’articolo individua requisiti per la registrazione troppo severi, difficoltà nel reperimento di informazioni che attestino il legame storico e tradizionale delle varietà con la zona di origine e una scarsa informazione tra gli agricoltori. In molti casi, il regime delle varietà da conservazione è visto più come una minaccia che come un’opportunità: le limitazioni all’autoproduzione, i limiti quantitativi alla commercializzazione e il divieto di vendita dei semi al di fuori dell’areale di origine spesso preoccupano i soggetti potenzialmente interessati. Oggi è in discussione un nuovo regolamento (la Commissione Europea ha pubblicato una proposta nel luglio 2023) che punta a semplificare le procedure di iscrizione.

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