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La precarietà uccide il lavoro: nel 2023 nel Barese solo l'8% di contratti a tempo indeterminato

 
Rita Schena

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Rita Schena

La precarietà uccide il lavoro: nel 2023 nel Barese solo l'8% di contratti a tempo indeterminato

Domenico Ficco, Cgil Bari: «Oggi l’impiego è sempre meno orientato verso il benessere della persona. I più precari e sotto tiro sono i giovani, gli over 55 e le donne»

Mercoledì 28 Febbraio 2024, 12:37

BARI - Andare oltre le precarietà significa superare l'ostacolo che ci divide da una società giusta e inclusiva, dove sono garantiti i diritti a tutti. Ed è questa la strategia che anima l'iniziativa della Cgil Bari: una serie di incontri che coinvolgeranno tutta l'area di metropolitana durante i quali esplorare «le» precarietà, che negano al cittadino di vivere in un sistema sano.

«E al centro di tutto questo ragionamento c'è il lavoro. Un impiego che purtroppo oggi è sempre meno indirizzato verso il benessere del lavoratore e che invece risponde a regole molto più aride del profitto ad ogni costo. Ed ecco perché ci troviamo di fronte ad una emergenza precariato selvaggio, che sono gli stessi numeri a dettare».

Domenico Ficco segretario generale Cgil Bari presenta il progetto «Oltre la precarietà» che vede al fianco del sindacato anche Confindustria Bari-Bat, Anci, l'Università di Bari, Legacoop Puglia, Cna Bari e Città metropolitana.

«Secondo la fotografia scattata dall'Anpal sul nostro territorio nell'ultimo anno 280mila persone hanno trovato lavoro – spiega Ficco -. Che sarebbe anche un buon dato se non fosse che nello stesso arco temporale 240mila lo perdono. E lo perdono non perché licenziate, ma perché i contratti di lavoro hanno un tempo brevissimo. Nel 2023 nell'area metropolitana il 67% dei contratti cessati era a termine e il 65% non superava i tre mesi. Significano 150mila lavoratori, persone, che hanno trovato un impiego per solo 90 giorni. Sono solo l'8% i fortunati che firmano un contratto a tempo indeterminato».

E se la stabilità del lavoro è un valore, perché consente una adeguata programmazione della vita delle persone, va da se che l'esasperata flessibilità, che poi è l'anticamera della precarietà, la nega.

«A questo aggiungiamo che nel nostro territorio la precarietà subisce parecchie sfumature – continua il segretario generale -. I più precari sono i giovani under 24 e gli over 55. Fasce di età completamente dissimili e che avrebbero bisogno di interventi del tutto differenti. E soprattutto l'alto tasso di disoccupazione femminile. Il lavoro in pratica non è solo precario, ma nel Barese è discriminante».

E a dirlo sono i numeri: il totale delle assunzioni per i giovanissimi è del 15%, percentuale che scende a 9 per quelli che firmano un contratto a tempo indeterminato. Idem per gli over 55 che passano da 19% al 16% per un contratto stabile. Tra le donne si conta il 44% del totale delle assunzioni e di queste solo il 37% firmano contratti a tempo indeterminato.

«La precarietà si annida nei mestieri a basso valore aggiunto e che rispondono ad una alta stagionalità mette in evidenza Ficco -: agricoltura, alberghi e ristoranti, che rappresentano - con il 42% - quasi la metà del totale delle assunzioni. I settori che invece garantiscono assunzioni a tempo indeterminato (pari al 57%) sono: il settore delle costruzioni (18%), delle attività immobiliari (14%), industria (13%), commercio (12%). E naturalmente la pubblica amministrazione: vincendo un concorso ci si può “sistemare” alla Checco Zalone».

La resistenza della precarietà del lavoro è la resistenza di un modello di lavoro fordista, che a parole tutti puntano a superare, ma che evidentemente è ancora dentro tante realtà imprenditoriali, specie medio piccole. Se si pensa alle attività rutilanti dei call center, o di impieghi sì ad alta tecnologia, ma che puntano esclusivamente a garantire profitto, significa che quella logica è rimasta immutata nell'ultimo secolo.

E se il sociologo Luciano Gallino osservava che per tanti cittadini il lavoro precario è percepito come una ferita all'esistenza, una fonte immeritata di ansia, una diminuzione dei diritti di cittadinanza, forse è arrivato veramente il tempo di una riflessione approfondita su quanto tutto questo costi alla società, in termini di salute fisica e mentale a fronte di un effimero guadagno di pochi.

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