BARI - Il riconoscimento dell’aggravante mafiosa rispetto a un reato non implica necessariamente che l’accusato sia anche partecipe del sodalizio criminale. È questo il principio espresso nelle otto pagine di motivazioni con cui i giudici della Cassazione hanno rigettato i ricorsi presentati da Alceste e Daniela Cavallari, figli di Francesco, ex patron delle Case di Cura Riunite di Bari morto nel 2021 a Santo Domingo: Cicci Cavallari dunque non è un mafioso, ma ha comunque compiuto un reato per agevolare i clan baresi.
In sede di revisione (nel 2021) gli eredi di Cavallari avevano ottenuto dopo trent’anni dalla Corte d’appello di Lecce la cancellazione della condanna per associazione mafiosa, ma non quella per tentata estorsione con aggravante mafiosa, per le quali nel lontano 1995 l’imprenditore aveva patteggiato 22 mesi di reclusione: dopo la revisione la pena è scesa a 16 mesi. Gli eredi si sono dunque rivolti alla Cassazione. Nel ricorso (presentato per conto di Alceste dagli avvocati Mario Malcangi e Valeria Volpicella, mentre per Daniela dagli avvocati Gaetano Sassanelli e Vittorio Manes) la difesa aveva sostenuto che proprio in virtù della pronuncia di assoluzione dall’associazione per delinquere non potesse essere riconosciuta sussistente l’ipotesi di tentata estorsione con l’aggravante delle modalità mafiose.
Nelle motivazioni i giudici di piazza Cavour richiamano però la sentenza pronunciata ai tempi dal Tribunale di Bari in cui si fa riferimento «all’accertata propensione di Cavallari Francesco, pur al di fuori di un contesto di partecipazione ad un’associazione mafiosa, ad avvalersi del sostegno di esponenti della malavita organizzata di stampo mafioso, in occasione, in particolare, delle pressioni ricevute dalle maestranze che sostavano dinanzi alla sua abitazione all’insistente ricerca di un lavoro; in definitiva - si legge ancora - il Cavallari aveva come obiettivo principale quello di tenere a freno le organizzazioni più pericolose per evitare ritorsioni e danni di immagine all’esercizio dell’attività delle cliniche a lui riconducibili e di «entrare nelle grazie» del clan «con l’assunzione, sia pure sporadica, di singoli affiliati o soggetti vicini alle cosche; nel contempo, non disdegnava di utilizzarne i servigi ove indispensabili per la propria tranquillità e sicurezza». Da ciò discende che l’accusa (caduta) di associazione a delinquere non è in contrasto con quella di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso.
Per altro verso i magistrati romani ritengono che non possa esistere un contrasto di giudicati - così come sostenuto dalla difesa in uno dei motivi del ricorso - nonostante siano state pronunciate sentenze differenti in relazione ai medesimi fatti. Nello specifico si fa riferimento alle assoluzioni pronunciate dal Tribunale collegiale di Bari nei confronti dell’ex manager della Ccr, Paolo Biallo (già cognato di Cavallari, deceduto nel 2019) e del boss Savino Parisi, ultimi due imputati nel processo scaturito dall’operazione «Speranza» su presunti intrecci - mai provati - fra politica e mafia della gestione delle Case di cura di «Cicci».
In un passaggio si legge come «il diverso epilogo giudiziale sia il prodotto di difformi valutazioni di quei fatti - specie se dipese dalla diversità del rito prescelto nei separati giudizi e dal correlato, diverso regime di utilizzabilità delle prove, come avvenuto nella vicenda in esame». I fatti si riferiscono all’occupazione, risalente al 1993 e durata per circa una settimana, della clinica Villa Anthea da parte di un folto gruppo di persone che secondo la prospettazione accusatoria sarebbero state «strategicamente manovrate» da Cavallari allo scopo di costringere il costruttore Antonio Quistelli, con il quale era in corso un contenzioso, a cedergli le quote di proprietà dell’immobile.
L’imprenditore barese, proprietario ai tempi di un vero e proprio impero, aveva anche subito la confisca del patrimonio, per un ammontare complessivo di 350 miliardi di vecchie lire. La cancellazione della condanna per tentata estorsione avrebbe aperto le porte alla restituzione dei beni.
GLI AVVOCATI: «CAVALLARI PAGA SCELTE PROCESSUALI ERRATE»
«Al netto delle questioni squisitamente tecniche - secondo gli avvocati Mario Malcangi e Valeria Volpicella -, il lettore attento comprende che Cavallari continua a pagare il conto di una scelta processuale sbagliata. Si evince chiaramente che se Cavallari avesse optato per il dibattimento taluni accadimenti (tra cui quello del reato di tentata estorsione di cui invocavamo la revisione) sarebbero stati valutati diversamente».
«In sostanza - prosegue la nota dei legali - dobbiamo accettare l'idea che in relazione al medesimo episodio possano formarsi valutazioni giuridiche e, quindi, realtà processuali diametralmente opposte. E che quando ciò accade il sistema giustizia non ha dei meccanismi di riparazione. Ciò detto, questa piccola partita residua, andava giocata per principio. Con lo stesso spirito con cui Cavallari, vinta la causa civile contro Quistelli per l'acquisizione proprio di Villa Anthea (pensate al paradosso...) rinunciò al risarcimento, dicendo che la sua era solo una questione di principio. Questo aspetto, possiamo dire trascurabile, dell'intera battaglia ha poco a che fare con la strada della revoca della confisca dei beni, aperta e ancorata sulla ben più ampia e definitiva assoluzione dell'infamante accusa di aver promosso un'associazione mafiosa. Sulla questione della revoca già la Corte di Appello di Lecce avrebbe potuto pronunciarsi».