BARI - «Caro Babbo Natale, per me quest’anno nessun regalo, fai solo tornare il mio papà a lavorare».
«Quando mia figlia l’altro giorno ha scritto la sua letterina mi si è stretto il cuore. E’ piccola ma capisce tutta la vicenda che ci sta coinvolgendo. Eravamo una famiglia tranquilla, ma il licenziamento ci ha precipitati in un baratro». A parlare la moglie di uno dei licenziati della Skf, la multinazionale con una sede nella zona industriale e che produce cuscinetti a sfera.
Lo scorso giugno due operai furono licenziati per negligenza con l’accusa di aver montato un pezzo difettoso, mentre invece la loro difesa è sempre stata quella di aver segnalato il problema del pezzo che stavano montando sia al capo reparto sia al reparto manutenzione. Una segnalazione inutile. Il pezzo è stato montato e il cliente, resosi conto del problema, ha chiesto i danni. Il provvedimento di licenziamento è stato impugnato davanti ai giudici ed ora si aspetta la data di comparizione.
Nei giorni scorsi si è anche costituito un comitato di lavoratori Skf a difesa dei colleghi licenziati.
«Io parlo da moglie ferita – racconta la signora -, come donna che da mesi sta vivendo una tragedia che non vorrei passasse sotto silenzio, soltanto perché è qualcosa che coinvolge solo poche persone. E la letterina di mia figlia ne è la testimonianza più vera. I genitori dovrebbero considerare il Natale come il momento giusto per insegnare ai bambini la gioia dell'attesa, il senso più autentico del dono, la condivisione, lo stare insieme alle persone che amiamo e il valore delle cose semplici. Ma un licenziato ingiustamente non ha nulla da offrire alla sua famiglia, ai suoi figli. E non si parla di beni materiali, ma di spensieratezza, di mancanza di normalità. Sì, perché un licenziato non ha più la terra sotto i piedi se ha un mutuo da pagare, delle bollette e una figlia da sfamare e a cui garantire un futuro dignitoso. Un innocente in attesa di giudizio, è un uomo sconfitto, perché la vita scorre ma lui si chiede ancora dove ha sbagliato. E se ha sbagliato, era forse quella la pena più giusta? Aspettiamo che un giudice scelga la nostra sorte, come famiglia possiamo solo tenerci per mano nel buio, fiduciosi nella giustizia».
La signora è travolta dall’emozione. Mentre parla stringe tra le mani la letterina che con grafia incerta la piccola ha scritto. Un pensiero vero e non dettato, da parte di una bambina che vive sulla propria pelle un dolore più grande di lei.
«Eravamo una famiglia felice e normale. La stabilità economica ci permetteva di vivere con dignità. Non abbiamo mai fatto un passo più lungo della gamba, ma questa situazione ci sta spegnendo. Siamo tristi. Al nostro fianco, sì sentiamo l’affetto ed il sostegno delle nostre famiglie, di tanti colleghi di mio marito che ci sono vicini, ma è come se qualcosa si fosse rotto. Viviamo appesi alla decisione di un giudice. Viviamo nella speranza che tutto torni a quello che era».
E nella difficoltà di tutta una serie di paradossi. Chi perde un lavoro è come se vivesse in un limbo, non rientra nelle categorie di chi ha accesso ad aiuti istituzionali, anche se ne ha necessità, avrebbe bisogno di una nuova opportunità ma non sa dove chiedere.
«Se chiedo un aiuto economico alle Istituzioni mi si chiede di presentare il modello Isee – spiega la signora -, ma è calcolato sul reddito dello scorso anno, di quando mio marito lavorava e di conseguenza è come se non avessimo diritto a nulla. Mi sono stati offerti buoni spesa in virtù della lettera di licenziamento. Io capisco che si tratta di regole, per carità, ma tu già hai un peso sul cuore, poi devi stare anche a barcamenarti tra moduli e documenti… Io so solo che quest’anno a Natale, tanti bambini passeranno un momento felice, mia figlia no. Gli è stato negato. Noi adulti cerchiamo di farci forza, non è nel nostro carattere alzare i toni o legarci per manifestare, ma gli occhi tristi della mia bambina sono come una pugnalata al cuore, come questa letterina. La mia preghiera è un appello: chi può fare qualcosa, ci aiuti e soprattutto non dimenticate i tanti lavoratori che hanno perso tutto. Siamo persone non numeri».