«Rispetto a tante app che abbiamo sul nostro cellulare sicuramente “Immuni” non è la più pericolosa, ma ha tante criticità che bisogna ben tenerle presente». Andrea Lisi è un avvocato esperto in diritto dell'informatica e privacy e presidente di Anorc, una associazione riferimento nazionale per le aziende e i professionisti impegnati nel campo della digitalizzazione e protezione del patrimonio informativo e documentale. Tiene spesso seminari su Bari e in queste ultime settimane i suoi appunti sulla app «Immuni» hanno catalizzato molta attenzione sui social con un intenso dibattito.
«Io non voglio alimentare polemiche in un Paese come il nostro che si divide con gran facilità tra Guelfi e Ghibellini – spiega Lisi -, mi limito ad alcune osservazioni. Uno: perché una applicazione che dovrebbe raccogliere nostri dati sensibili si deve appoggiare a piattaforme come Google o Apple che notoriamente raccolgono dati personali per loro profilazioni marketing? In Francia e Inghilterra sono state create simili applicazioni ma senza ricorrere a piattaforme private. Due: esperienze similari in altri Stati esteri sono state un flop, perché senza l'obbligatorietà all'uso non si è raggiunto quel 60% di utilizzo necessario alla buona riuscita. Tre: l'applicazione obbliga a tenere attivo il bluetooth e il gps. È come se il nostro cellulare tenesse sempre la porta di casa aperta. È rischioso, non solo perché ci rende sempre visibili, individuabili e tracciabili, ma perché il bluetooth è una tecnologia facilmente attaccabile da virus o altro».
(l'avvocato Andrea Lisi)
L'avvocato Lisi evita di entrare in beghe informatiche o in tutte le polemiche che in queste settimane hanno alimentato un acceso dibattito, tanto da creare schieramenti diametralmente opposti: c'è chi sta alimentando catene che incitano a scaricare l'applicazione, o chi la respinge come fosse l'Anticristo. «Io sono solo molto perplesso sull'esattezza del dato che si punta a raccogliere. Siamo proprio sicuri che bastano 15 minuti vicino ad un positivo per infettarci? E poi la vicinanza, il bluetooth non rileva se tra me e l'eventuale positivo c'è un muro o un qualsiasi divisorio che mi renda impossibile persino il rendermi conto della sua presenza. E allora? Io mi ritrovo a ricevere l’allerta di contagio, ma è solo un falso positivo perché in realtà non c'è stato alcun contatto. Se si moltiplica questa ipotesi, si rischia di generare un gran panico e senza la possibilità di accedere immediatamente ai tamponi per verificare l'esattezza dell'allarme. E io nel frattempo che faccio? Finisco in quarantena? E per quanto tempo?».
Lo scenario diventerebbe complicato da gestire, la paura alimenterebbe i tanti ansiosi che già oggi vivono questa epidemia con grande apprensione. E i dubbi sollevati dall'avvocato Lisi sono solo la punta dell'iceberg.
«Una app del genere sarebbe stata utile all'inizio dell'epidemia o nel malaugurato caso di una seconda ondata di ritorno, con numeri alti di contagi – sottolinea Lisi -, ma ora mi sembra per lo meno inutile. In più non è uno strumento testato, quindi con un'alta probabilità di generare falsi positivi e uno sbaglio del genere può provocare seri danni. In pratica chiedono a noi pugliesi di fare da cavie. Io sono scettico e molto. Al momento è stata scaricata da 500mila utenti, l'1% degli italiani e per funzionare ricordo che si dovrebbe arrivare al 60%. Poi si deve vedere quanti la useranno... Mi sembra che ci stiamo ostinando su un qualcosa di inutile».