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«Sono positiva, per scoprirlo ho dovuto chiamare i carabinieri»: la storia dal Barese

 
Francesca Di Tommaso

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Francesca Di Tommaso

«Sono positiva, per scoprirlo ho dovuto chiamare i carabinieri»: la storia dal Barese

Il calvario di una donna ricoverata per una riabilitazione, poi è cominciato l'inferno

Domenica 12 Aprile 2020, 12:56

«Sono positiva, sì, ma per poterlo scoprire ho dovuto chiamare persino i carabinieri!». Sorride, Tina Ottavino, rinchiusa nella tavernetta di casa per evitare contatti con il marito e i due figli. Un sorriso amaro: alla fine, la quarantena volontaria a cui si era sottoposta si è trasformata in fiduciaria. Ma solo grazie alla sua determinazione. «Oltre al rispetto per il prossimo e alla capacità di ascolto – ci tiene a sottolineare – senza, non se ne esce in nessun campo».
La sua storia risale al 17 febbraio.
«Ho dovuto affrontare un intervento alla schiena agli Ospedali riuniti di Foggia – racconta – e dal 25 febbraio sono stata trasferita in una struttura di Putignano per il necessario percorso di riabilitazione. Nel centro sono stata oltre un mese; vale a dire che, quando è scoppiata l’emergenza Covid19, io ero ancora lì».

Un terremoto. Nella struttura sono ricoverati molti anziani, Tina è tra gli ospiti più giovani e reattivi.
«Il personale è più o meno munito di mascherine e guanti, poverini fanno quel che possono con grandi difficoltà, le stesse mascherine non sono sufficienti per tutti. Purtroppo il primo caso conclamato di Coronavirus arriva il 23 marzo. Il giorno dopo si procede alla sanificazione delle stanze; noi degenti attendiamo nei corridoi che la completino».
Tina richiede il tampone, e come lei in realtà i tamponi andrebbero estesi a tutti, personale e pazienti ricoverati per isolare eventuali positivi e bloccare il contagio. Sono normative previste dalla Asl locale.
«Niente tampone: non ho febbre e quindi il 25 marzo mi dimettono per conclusa degenza post-intervento, chiedendomi di fare la quarantena a casa. Solo due giorni dopo, i casi di Coronavirus nella struttura sono diventati 18. La mia famiglia non mi vuole accogliere, ha paura. Come dargli torto?».

Anche Tina è preoccupata. «La mia dimissione è documentata, non dichiara in nessun punto che debba svolgere la quarantena fiduciaria, quindi sarei una persona che se ne sta a casa solo per mera coscienza. Se mi recassi a fare la spesa, in farmacia, insomma in giro per le necessità di base, non mi si potrebbe imputare alcunché. Eppure io ho convissuto con 18 casi di Covid19, chiedo troppo, nell’interesse di tutti, se non di essere ascoltata nella richiesta di un tampone?». Non si arrende: informa le Asl, chiama il suo medico curante per palesare il suo rientro a casa, chiama i carabinieri.
Il mantra è sempre lo stesso: se non hai febbre, resta a casa. Ottavino contatta anche il sindaco della cittadina dove vive e poi il sindaco di Putignano, la cittadina dove alloggiava nella struttura.

«Saranno loro, il sindaco di Putignano, Luciana Laera e il governatore Emiliano, gli unici che finalmente ascoltano fino in fondo i miei timori e non li reputano infondati. Mi danno i contatti telefonici giusti, il Dipartimento centro protezione Covid e, telefonando, la consulenza preziosa di Angela Battista, del dipartimento di prevenzione Sisp- area sud - Putignano».
Arriva da Bari un’infermiera specializzata e le effettuano il tampone: il responso è positivo. Aveva ragione lei.
«Non ho vinto nessuna battaglia, anzi. - commenta Tina -. Diciamo che sto utilizzando tutto il tempo che ho a disposizione, chiusa in una camera con bagno, per pensare ad un modo per affrontare il fenomeno del contagio con meno approssimazione e confusione. Niente caccia alle streghe ma magari provare a creare una sorta di mappatura cittadina Covid19, che controlli a grandi linee lo stato di salute di ogni abitante del paese, per esempio attraverso esami sierologici. Ogni medico curante si occupa di realizzare la mappa dei propri pazienti, poi l’affida alla Asl locale che la passa al Governatore regionale che dovrà ordinare l’isolamento dei pazienti individuati. In altre parole, escludere in questo modo le potenziali cause di epidemia».
«Mettiamola così - sdrammatizza – facciamo in modo che chi è affetto da Covid possa diventare il “prescelto” per raccontare la sua esperienza e allertare chi la sottovaluta. E poi, perché no, dare il suo contributo a trovare una soluzione per arginare il contagio».

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