È sabato sera, sei seduto su una poltrona in aeroporto. Fuori c’è già la tempesta ma nessuno la percepisce e tu sei tranquillo. Arriva l’ora dell’imbarco, ti alzi dalla poltrona, ultimo controllo allo zaino e via. Al gate tanta gente, troppa. Si continua a scherzare sul virus. Cosa fa la paura. Chiamano il tuo volo, coda, biglietto, passaporto, imbarco e sei dentro. Cuffie, ventilazione al massimo e bocca chiusa. Ogni tanto senti un colpo di tosse e allora trattieni il fiato. Non hai la percezione della gravità della situazione ma hai visto tanti film su virus e contagi. Un bicchiere d’acqua, gli assistenti di volo con i guanti in lattice, l’ansia aumenta. Atterri, passeggiata verso la macchina, la tempesta è alle spalle, lontano, magari. Macchina, casa, sei arrivato. Bacio a tua moglie, una carezza ai bambini, tv, letto. È il 22 febbraio.
Pranzo domenicale in famiglia. Nessun affanno particolare. La preoccupazione c’è, ma la tempesta è lontana.
Lunedi 24 febbraio. Inizia la settimana in clinica, tutto scorre liscio, i soliti problemi, le solite difficoltà, ma ancora non si pensa e non si fa caso alla tempesta che sta per arrivare. La settimana va. Si opera, si dimette, si visita, si discute, si scherza, si esce la sera a cena, si vedono gli amici.
È la prima settimana di marzo, lei è lì ma ancora non la percepisci bene, è pronta a far cambiare le tue abitudini, a cancellarti il quotidiano, a spazzare via tutto quello che avevi fatto fino a quel momento. Sogni, speranze, paure, delusioni, tutto spazzato via in un attimo. È arrivata e te lo fa capire nel peggiore dei modi: la paura, il contagio, la morte. Sono momenti concitati, si naviga a vista, ci si rende conto che non esiste un piano di emergenza.
Ci accorpano. Trasferiscono tutte le chirurgie specialistiche, chirurgia toracica, vascolare, neurochirurgia, mielolesi presso la nostra clinica. Devono liberare posti per i pazienti Covid. Riunioni, accordi, dissapori, liti; trasferimento di materiale, tanto materiale. Personale, tanto, troppo personale. Una buona metà viene traferita al reparto Covid. Dove prima c’erano 40 posti letto di ortopedia ora ci sono 40 posti letto per tutti. Turni per accedere alla sala operatoria. È la fine. Siamo veramente in emergenza nera. Ci comunicano di fare delle squadre, almeno un paio, per garantire l’assistenza anche in caso di contagio di uno di noi. Una squadra attiva e l’altra «dormiente» in maniera alternata e sempre reperibile su chiamata in trenta minuti. Dobbiamo farlo perché se il contagio ti colpisce ti fermi, fermi l’assistenza, fermi la clinica, fermi la tua vita. Dobbiamo attenerci agli ordini che arrivano dall’alto.
I comunicati si susseguono, a volte non sono sempre chiari, ma dobbiamo stare tranquilli qui non succederà quello che è successo in Lombardia, siamo pronti, eravamo pronti. Siamo pronti? Eravamo pronti? A cosa? Così cominci a leggere, lasci da parte per un attimo il tuo lavoro e leggi di altro.
Il 31 gennaio 2020 il Governo dichiara lo stato di emergenza per sei mesi. Dove ero io, dove era la protezione civile, dove era lo Stato, perché non lo so, perché non è stato predisposto nulla. Intanto, il contagio avanza inesorabile, le persone continuano ad ammalarsi e morire. «Chiudetevi in casa, non uscite, mettete la mascherina, lavatevi le mani, solo così possiamo spegnere il contagio».
Chiudiamo tutte le attività tranne quelle per i beni di prima necessità, fermiamo il paese, fermiamo l’Italia. Si ferma quasi tutto, le città, i paesi, i borghi si trasformano in città fantasma. Ci si chiude in casa. Prima però si fa la spesa, si fanno le provviste, le scorte. Tutti bravi o quasi. Qualcuno prova a forzare le disposizioni, purtroppo non ha capito che non è uno scherzo, che non è un film. È tutto maledettamente vero ma è più importante uscire con la bici o andare a correre o a pescare. Tanto che fastidio do, sono solo.
No, non sei solo, siamo circa 61 milioni di anime, non sei solo e dobbiamo uscirne tutti o, purtroppo quasi tutti, da questo incubo. Cosa fai? Prendi i tuoi due figli e li porti a casa dei nonni. Li separi. Ti separi. Tu devi continuare a lavorare. Il tuo non è un lavoro, è una missione. Tu lo sai da sempre ma gli altri lo capiscono solo ora. Diventi eroe. Mi viene da ridere. Fino a ieri eri venivi trattato come un «delinquente comune», oggi sei un eroe. Eroe senza corazza, senza materiale, senza aiuto.
Finita questa tempesta noi ritorneremo i «delinquenti comuni» di prima. Anzi, non finita la tempesta, in piena tempesta per alcuni avvocati, tu non sei riuscito a salvare una persona dal Coronavirus. Come è possibile, sei un incapace, un inetto, dove hai studiato, mi devi pagare, mi devi pagare. Non è un mio problema che tu medico, infermiere, autista di ambulanze, Oss, operatore del 118 e potrei andare avanti per ore, stai morendo o stai affannandoti a cercare di salvare o sollevare qualcuno, devi pagare. Stai tranquillo, però, alla fine verrai ricordato con una medaglia d’oro al valore civile, non importa che per dartela dovranno mettertela in una cassa di legno, sarai un eroe. Tutti o quasi insorgono: «lasciate stare i medici». Quanto durerà?
Siamo la Nazione più bella del mondo con delle caratteristiche uniche al mondo e cominciamo a capirlo: cultura, arte, enogastronomia, turismo, società. Nessuno ha quello che abbiamo noi. Cerchiamo di esserne orgogliosi e facciamo valere una buona volta e per sempre la nostra Nazione per quello che merita. Questa tempesta forse riuscirà a produrre qualcosa di buono nella sua irrazionale ferocia: l’orgoglio di appartenere a una Nazione.