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Giuseppe De Tomaso
23 Febbraio 2021
Perché l’intera Europa fa il tifo per Mario Draghi più di quanto (non) lo faccia l’italiano medio smanioso di rivedere l’intero Paese in buona salute? Semplice. Perché il futuro dell’Europa tutta è legato mani e piedi all’esito del Recovery Plan made in Italy.
Per la prima volta, da quando è nata, l’Unione Europea ha accettato il principio della mutualizzazione del debito. In soldoni: i contribuenti dei Paesi economicamente più disciplinati hanno accettato, nei fatti, di concedere un contributo di solidarietà ai Paesi economicamente più traballanti. Rectius: hanno accettato - ovviamente attraverso i loro governi - di condividere il debito, proprio per evitare la disintegrazione sostanziale dell’Unione sull’onda dell’offensiva sovranista.
Ma le aperture di credito, si sa, non sono mai a tempo illimitato. E l’Italia, è notorio, rimane la «sorvegliata speciale» numero uno tra le nazioni del Vecchio Continente. Sottinteso: se l’Italia non deluderà le attese, se l’Italia saprà ottimizzare le risorse del Recovery, la strada verso il bilancio pubblico comune (da assegnare, per l’approvazione, al parlamento di Strasburgo) sarà definitivamente in discesa, il che renderà meno complicata e drammatica la terapia nei periodi di recessione e depressione (il bilancio comune dell’Unione sarà fondamentale in queste particolari delicate circostanze).
In caso contrario, in caso di flop dei programmi di Recovery, buona notte. Riprenderanno fiato nella battaglia contro il bilancio comune sia i cosiddetti Paesi «frugali» che vedono come fumo negli occhi ogni «concessione» ai Paesi straindebitati come l’Italia; sia i cosiddetti Paesi identitari (Ungheria, Polonia, Slovenia...) che non si riconoscono nel processo di integrazione politica europea, limitandosi ad invocare il Partnernariato Economico Globale Regionale (RCEP), una sorta di area di libero scambio, in cui possano coesistere regimi politici diversi, anche quelli simili a una democratura anziché a una democrazia vera e propria.
Come si vede, l’Italia non può consentirsi la minima distrazione sul Recovery. Per certi versi, Draghi è chiamato a una sfida ancora più importante, ai fini della tenuta dell’Unione, di quella affrontata, quasi un decennio addietro,in qualità di presidente della Bce a difesa dell’euro, che era in procinto di finire stritolato nelle maglie della speculazione internazionale.
Il successo del Next Generation Eu - ripetiamolo fino alla noia - eliminerebbe ogni ostacolo alla redistribuzione delle risorse, all’interno dell’Unione, tra stati ricchi e stati poveri, sulla falsariga di quanto accade, all’interno dei singoli Paesi, tra regioni ricche e regioni povere.
Draghi lo ha lasciato intendere, non solo tra le righe, quando si è insediato alla presidenza del Consiglio. Così come ha detto chiaro e tondo che, per centrare l’obiettivo, è decisivo il varo di riforme che aumentino la produttività dell’economia e dell’intero sistema Italia.
Il capo del governo fa bene, nei suoi pochissimi interventi pubblici, a insistere su questo punto, non foss’altro perché i nostri precedenti, in merito all’impiego degli aiuti comunitari, non inducono all’ottimismo.
Nel periodo 2014-2020, l’Italia ha speso solo il 43 per cento dei fondi strutturali Ue. Davvero poca roba rispetto, ad esempio, alla Francia (61 per cento) e alla più virtuosa Finlandia (81 per cento). Se questa media nazionale non dovesse subire variazioni, se cioè non si dovesse verificare un balzo in avanti di questa percentuale, l’Italia utilizzerebbe solo 85 miliardi dei complessivi 209 di cui è provvisto il Recovery Plan. Insomma.
Insomma. L’integrazione, anzi l’unità politica, dell’Europa dipende dall’Italia, dipende da come verrà qui realizzato e gestito il Recovery Plan e, soprattutto, dalle riforme che lo precederanno e/o lo affiancheranno.
È una sfida straordinaria, innanzitutto perché il Recovery Plan, nelle intenzioni dell’Unione, deve puntare alla rinascita del Sud Italia, il vero grande malato dell’Europa. In secondo luogo, perché, in prospettiva, il rilancio del processo unitario, dopo l’auspicato successo del Next Generation Eu, sfocerà (deo gratias) nella riduzione del peso dei singoli capi di governo, a beneficio dell’europarlamento e della commissione esecutiva di Bruxelles.
L’Italia, soprattutto per il Sud, non può mancare a questo appuntamento. Non può mancare perché nella sua storia recente spicca lo status di socia fondatrice della Comunità Europea. E poi, perché, intendiamoci, l’Italia brilla più come potenza culturale che come potenza politico-militare (Francia) e come potenza economica (Germania).
Conclusione. L’intero Paese dovrebbe assecondare il lavoro di Draghi. Qui non è in ballo il futuro di questo o quel partito, ma l’avvenire di un Continente, oltre che di una nazione e di una macroregione (Mezzogiorno d’Italia).
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