Cambiare idea è spesso indice di umiltà e onestà intellettuale. Coltivare dubbi è sempre indice di intelligenza, di refrattarietà a dogmi e pregiudizi vari. Ma se il cambiamento di idee non è frutto di una profonda riflessione interiore, bensì figlio di un calcolo di convenienza o di carriera, beh allora ci troviamo sul terreno dell’opportunismo più spiccato, del machiavellismo più smaccato.
La vicenda del referendum sul taglio dei parlamentari è l’ultimo esempio, in ordine di tempo, della disinvoltura con la quale certa classe politica tende a mutare parere spinta dai tornaconti del momento o da quelli prossimi venturi.
Più passano i giorni, più si allarga la pletora, tra i parlamentari, dei contrari al taglio dei seggi. Tutti pentiti, gli ultimi approdati al fronte del no, di aver detto sì nelle quattro votazioni tra Camera e Senato e di aver sostenuto, sui giornali e in tv, la causa della riduzione degli eletti.
La retromarcia sul numero di deputati e senatori è indicativa dell’eterno trasformismo che pervade la politica italiana, trasformismo che il più delle volte conduce a scenari sempre più paradossali, tipo quello di assistere, in questi anni, a populismi diversi, e però accomunati da un’unica politica economica. Singolare, no?
Anche le imminenti elezioni regionali, coeve e coassiali dell’appuntamento referendario, s’inseriscono nel solco della tradizione trasformistica italiana, vedi la transumanza preelettorale di alcuni candidati tra le formazioni in pista. Anche in questo caso, sono per lo più ignote le ragioni dei cambi di maglia o, meglio, sono fin troppo note. Di sicuro, nessun salto della quaglia è dipeso da un travaglio personale (!) o da una profonda analisi dei programmi, delle proposte sul tavolo. I programmi, per altro, quando ci sono, provocano un insopportabile fastidio, come le zanzare sulla veranda. Meglio tenersene alla larga e pensare solo ai voti da rincorrere. Tanto, i programmi sono come le voci del menù al ristorante, il piatto da ordinare verrà reso noto solo quando ci si sistemerà a tavola. Non è saggio precorrere i tempi.
Purtroppo, il nostro trasformismo viene da lontano e ha contribuito a segnare, in peggio, la storia, politica e civile, del Belpaese. Tutto nasce dal processo che sfocia nell’Unità nazionale (1861), processo - per usare l’espressione del politico e filologo appulo-napoletano Ruggiero Bonghi (1826-1895), ministro dell’Istruzione Pubblica e deputato di Lucera - giunto al traguardo attraverso lo schema della «piramide rovesciata»: anziché essere il terminale di un movimento partito dal basso, la fase decisionale, pre-unitaria e post-unitaria, si è rivelata l’atto iniziale di un’operazione scattata dall’alto, con il compito aggiuntivo di forgiare uno spirito nazionale. Un obiettivo sostanzialmente fallito per la difficoltà, tra l’altro, di conciliare gli opposti interessi di Nord e Sud. Risultato: il Mezzogiorno si ritrova subito subalterno (anche per colpa dei suoi rappresentanti distratti) agli interessi del Settentrione, vedi la sconsiderata politica protezionistica (1887) che uccide nella culla la nascente industria agroalimentare del Sud. Corollario: la parte più arretrata del Paese assiste alla sottomissione della sua pubblica amministrazione ai disegni del ceto politico, un fenomeno che passerà alla storia come la ministerializzazione dei collegi elettorali meridionali. E quando politica, amministrazione, economia si mischiano e si confondono a oltranza, non c’è vaccino che tenga: il virus del trasformismo diventa più penetrante e irresistibile del Covid 19. Morale: la politica evolve in una continua quadriglia, in cui è sempre più complicato seguire i nomi e le mosse dei protagonisti.
Intendiamoci. Anche il Nord non è immune dal morbo del trasformismo, anzi. Ma, colà, il contagio trasformistico fa meno danni, disponendo l’Alta Italia di un sistema industriale assai più solido e resistente.
Un tempo le scuole di partito, oltre a formare un personale politico di elevato livello, servivano anche a limitare le navette gattopardesche tra uno schieramento e un altro. Ma le scuole di partito sono sparite da tempo, e le conseguenze si vedono: forze politiche sempre più scollate, liste elettorali sempre più raccogliticce, squadre in campo sempre più povere di giocatori eccelsi.
Il che non costituisce un’annotazione ottimistica, specie per il Sud, per un motivo semplice semplice: quando la partita politica si riduce esclusivamente a scontro tra interessi, senza alcun collante ideale superiore, il pronostico è scritto già in partenza, ossia vince il più forte, com’è naturale che avvenga.
Servirebbe una svolta, un intervento di discontinuità, soprattutto nella selezione della classe dirigente meridionale, in maniera tale da immunizzarla dalla patologia trasformistica. Ma, per svariate ragioni, questo auspicio, soprattutto oggi, costituisce una pia illusione.