Sosteneva Leo Longanesi (1905-1957), aforista sferzante e iper-corrosivo, che una Repubblica fondata sul lavoro non può che desiderare il riposo. Longanesi, battutista non privo di cinismo, come minimo esagerava. Non foss’altro perché l’Italia dei suoi tempi, quelli successivi al secondo conflitto mondiale, tutto era tranne che un concentrato di scansafatiche o di vacanzieri a tempo indeterminato. L’Italia del dopoguerra era un alveare, un cantiere sempre aperto, che non vedeva l’ora di scrollarsi di dosso quella miseria acuita dalla sciagurata decisione di entrare in guerra al fianco del diavolo nazista.
Con il passare degli anni, però, il fervore sfociato nella crescita economica più spettacolare nella storia della Penisola, ha ceduto il posto a un atteggiamento meno operoso e generoso, a un andazzo più sensibile ai diritti che ai doveri. E quando un popolo s’innamora solo dei primi e molla i secondi, non c’è ricetta economica che tenga: il declino è garantito, come dimostrano l’ascesa e la discesa dell’impero romano, accoppato dallo spirito rinunciatario dei capitolini più che dalla libidine predatoria dei barbari invasori.
Per secoli il lavoro ha costituito una maledizione, non una benedizione. Per secoli, feudatari e oligarchi vari hanno considerato il lavoro come un’attività disdicevole, di cui vergognarsi, un’incombenza degna solo degli schiavi che, non a caso, insieme a cavalli, cani, asini, pecore, mucche eccetera formavano il drappello degli animali domestici.
Si deve alla rivoluzione borghese, come sottolineato in termini lirici da Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) nel Manifesto del Partito comunista (1848), la rottura con il sistema feudale, basato sui privilegi di nascita, non già sull’obiettivo di lavorare e produrre.
La rivoluzione industriale ha poi creato le condizioni per la lotta di classe, per la nascita del movimento operaio, ma per decenni e decenni borghesi e proletari, pur combattendosi aspramente, non hanno mai demonizzato il bene lavoro, anzi. Borghesi e proletari si sono divisi sulla proprietà (privata o pubblica) dei mezzi di produzione e di scambio, ma hanno condiviso in ogni caso il punto di partenza: viva il lavoro, più se ne crea, meglio sarà per tutti.
Da qualche tempo, però, specie in Italia, il lavoro non sembra più giovarsi di una buona reputazione. Sarà per colpa dello spleen, dell’umore nero che, secondo la medicina ippocratica, causava l’ipocondria, sta di fatto che il concetto stesso di lavoro sembra provocare in parecchie persone uno stato d’animo denso di malinconia, insoddisfazione, insofferenza, noia, fastidio, ripulsa, quasi che il mestiere di vivere non debba richiedere e comportare impegno e sudore. In breve: se nel passato remoto erano in pochi (fortunati e privilegiati per dinastie) a ripudiare il lavoro, ora con la società signorile di massa (Luca Ricolfi) il numero degli assistiti si è allargato a dismisura, tanto che oggi metà del Paese pur risultando (sic) nullafacente e nullatenente, dispone ugualmente di tutti i materassi (dal reddito di cittadinanza fino a un reticolo di contributi e agevolazioni) in grado di assicurare una vita sostenibile.
Intendiamoci. La disoccupazione non è un’invenzione. Non si contano le famiglie che vivono nell’incubo, nel dramma del non lavoro. Non si contano i giovani costretti a emigrare per disegnarsi un percorso professionale. Ma sono tanti anche quelli che non si preoccupano di nulla, che non rincorrono alcuna attività, che se ne fregano (passateci il termine) di tutto. Sì, perché c’è sempre un lavoretto in nero dietro l’angolo, e poi in nome della lotta alle disuguaglianze qualcuno dall’alto provvederà, ovviamente con i soldi di quei pochi fessi in regola con le tasse, e come tali collocati nella categoria del ceto medio benestante (!), quello che non può usufruire di benefit su sanità, trasporti, rette universitarie, mense scolastiche eccetera.
Gli evasori, che si annidano tra nullatenenti e nullafacenti, sommessamente ringraziano: dove si può trovare uno stato che oltre a disincentivare la crescita professionale e il lavoro per colpa di aliquote fiscali vessatorie e, in alcuni casi, espropriative, premia proprio coloro che s’imboscano e s’impigriscono anche quando essi potrebbero dare un maggiore contributo alla crescita generale?
Già il lavoro, a causa di una sub-cultura feudale di ritorno, viene oggi considerato una iattura in parecchi settori della società. Se poi si mette pure lo stato a portare munizioni all’arsenale concettuale di questo fronte neghittoso, il cerchio si chiude. Nemmeno una ventina di Mes o di interventi similari da parte dell’Europa riuscirebbero a dare energia a un Paese orientato a sopravvivere, non a vivere in competizione e in cooperazione con gli altri.
Servirebbe una scossa verso la rivalutazione del fattore lavoro e del dovere di impegnarsi, così come stabilito dall’articolo 4 della Costituzione, che dopo aver riconosciuto il diritto al lavoro, stabilisce che «ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Ma chi può dare questa scossa se l’andazzo generale va in tutt’altra direzione; se la cultura prevalente sembra voler riproporre e generalizzare l’esecrazione feudale nei confronti del sacrificio e del lavoro; se la razza furbona trova mille modi e mille trucchi per prosperare sulle spalle degli altri?
Dovrebbe essere il mondo politico, o perlomeno una parte, a farsi carico di questa sfida. Ma il mondo politico non solo non sembra intenzionato a chiedere un supplemento di sforzi in un’emergenza mai così grave, ma sulle questioni economiche dimostra quella sostanziale condivisione di scelte mentre si spacca sui temi, diciamo così, valoriali. Infatti.
Mai come ora lo stato dovrebbe concentrare il suo raggio d’azione su sanità e scuola. Invece non vede l’ora di investire soprattutto sul resto, in uno shopping compulsivo alquanto azzardato in un Paese ad alto debito pubblico.
Una volta c’era lo stato imprenditore. Poi è subentrato lo stato regolatore. Ora è il turno dello stato investitore. Ma il lavoro non arriva dopo un colpo di bacchetta magica finanziaria. Il lavoro arriva solo se si creano, innanzitutto, le condizioni culturali per la crescita. Il che, anche a causa delle attese assistenziali alimentate dalla pandemia, non sembra all’ordine del giorno.