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Nella scuola dei prezzi la palestra delle imprese

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

Nella scuola dei prezzi la palestra delle imprese

I soldi europei vanno bene. Anzi vanno benedetti. Soprattutto nel Sud. Ma senza un sistema dei prezzi, si rischia solo di portare acqua al mulino delle tariffe, cioè dei lobbisti e dei faccendieri che stanno allo sviluppo e alle imprese come l’acqua sta al vino

Giovedì 27 Agosto 2020, 14:00

La letteratura sulla figura dell’imprenditore potrebbe riempire chilometri di biblioteche. Non si contano le definizioni. Non si contano gli autori che si sono cimentati nello studio del principale protagonista di quella rivoluzione industriale che ha archiviato i secoli bui del feudale medioevo, caratterizzati dai privilegi di nascita ostili a qualsiasi titolo di merito o di selezione capacitaria.

Ma se c’è una definizione che, nella sua semplicità, non solo focalizza con più efficacia di altre l’attività imprenditoriale, ma soprattutto indica, sottolinea una filosofia, una cultura, una prescrizione per chi voglia davvero trasformarsi in un produttore di beni e servizi al servizio dei consumatori, questa definizione appartiene a Luigi Einaudi (1874-1961).

«L’imprenditore è colui il quale corre il rischio del prezzo» scandisce l’economista piemontese ne Il buongoverno. Sembra una descrizione lapalissiana, persino tautologica, ma non è così. Quanti sono gli imprenditori che accettano sul serio la sfida del prezzo? Non tantissimi. E quanti sono invece quelli che, grazie alle entrature e protezioni politiche, scelgono di prosperare più comodamente sotto il generoso, accogliente, albero delle tariffe?

Purtroppo. Il numero dei protetti è sempre in aumento, grazie anche all’opera dei protettori (la classe politica) cui non pare vero di poter teleguidare, telecondizionare le imprese, o di premiare ad esempio gli imprenditori, o meglio i prenditori, più collaborativi in occasione delle campagne elettorali.

Inutile ricordare che l’emergenza causata dalla pandemia, richiedendo un maggiore impegno dello Stato a sostegno dell’economia, ha, per così dire, contribuito a funzionarializzare e burocratizzare ancora di più il mestiere del datore di lavoro, scoraggiandolo dalla prospettiva di accettare il rischio del prezzo, che poi sarebbe il rischio di fallire in caso di risposta negativa, sul fronte degli acquisti, da parte di clienti e consumatori.

Ecco il punto. Perché il Paese possa ripartire è necessario che tutti, in un quadro, si capisce, di rispetto, fiducia e collaborazione generali, tornino al più presto a fare la propria parte senza compromissioni e invadenze reciproche. Le imprese devono fare le imprese. I sindacati i sindacati. I governanti i governanti. Già la fiducia si sta rivelando un enzima sempre più raro. Ma oggi, come ha notato da tempo Marco Follini, dilaga il sentimento del rancore, il che, a sua volta, finisce per nutrire quella «disperanza» colta da Marco Rossi-Doria in un felice saggio di un paio di anni addietro.

Ovvio. Soprattutto in queste condizioni neppure una mente superiore riuscirebbe a creare le premesse perché un intervento politico sia in grado - in linea con la concezione detta «ottimo paretiano» - di migliorare lo status di una persona senza peggiorare quella degli altri. Solo la strada del prezzo come informazione dello stato di scarsità/abbondanza di un bene o di un servizio può evitare errori nell’allocazione delle risorse e orrori nella distribuzione dei quattrini, oltre alle malversazioni nella gestione del pubblico danaro. Ma, chissà perché, la logica delle tariffe si dimostra sempre più ammaliante di quella del prezzo. Forse perché a suo favore gioca il pressing dei lobbisti, corteggiatori di tariffe, spesso di casa nelle anticamere del potere. E «i lobbisti - osservava John Fitgzerald Kennedy (1917-1963) - sono in gran parte tecnici esperti, abili nel presentare temi complessi in modo semplice e accattivante».

Il prezzo rimane, perciò, l’unico mezzo per combattere quello che il premio Nobel per l’economia, Ronald Coase (1910-2013), etichettò come «l’errore del Nirvana», ossia la presunzione fatale di correggere le distorsioni del mercato reale con una versione idealizzata dell’economia di comando.
Favorire il libero formarsi dei prezzi, significa favorire la concorrenza, favorire la concorrenza significa bloccare sul nascere ogni sogno, ogni tentativo di reintrodurre un’economia corporativa nel Paese. Le corporazioni sono nemiche delle novità e amiche delle rendite garantite. Di sicuro non giovano a una nazione bisognosa di «distruzione creativa», missione assegnata da Joseph A. Schumpeter (1883-1950) alla schiera dei veri imprenditori.

Il prezzo è croce e delizia degli spiriti più intraprendenti. Ma il prezzo è l’unica collaudata scuola di formazione dei produttori di ricchezza e occupazione. Senza il fattore prezzo latitano le informazioni e sfumano le iniziative. Ma, soprattutto, senza il fattore prezzo, non si alleva quella tipologia di talenti come quella che dopo la seconda guerra mondiale ha realizzato il miracolo economico e che oggi attende ancora eredi degni dei padri.

I soldi europei vanno bene. Anzi vanno benedetti. Soprattutto nel Sud. Ma senza un sistema dei prezzi capace di veicolare le informazioni sui gusti e sulle attese delle masse di consumatori, si rischia solo di portare acqua al mulino delle tariffe, cioè dei lobbisti e dei faccendieri che stanno allo sviluppo e alle imprese come l’acqua sta al vino.

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