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La normalità fa rima con la nostra responsabilità

 
Giovanni Valentini

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Giovanni Valentini

La normalità fa rima con la nostra responsabilità

Giovanni Valentini

Assediati dal virus, minacciati dalla disoccupazione e dal calo dei redditi, messi duramente alla prova anche nei rapporti interpersonali e familiari, abbiamo dimostrato a noi stessi capacità di resistenza e voglia di rinascita

Mercoledì 13 Maggio 2020, 15:08

La storia – come sappiamo bene – non si fa con i se e con i ma. E tuttavia, se nel 2001 il centrosinistra non avesse approvato l’infausta riforma del Titolo V della Costituzione, per inseguire il federalismo fiscale della Lega e delegare più poteri alle Regioni, non avremmo assistito durante questa epidemia alle crescenti tensioni con il governo centrale sul delicato terreno della Sanità pubblica. E se nel dicembre 2016 la maggioranza degli italiani non avesse bocciato la riforma costituzionale proposta da Matteo Renzi, proprio per modificare quelle norme e ridurre il decentramento, non ci saremmo trovati oggi di fronte a un conflitto istituzionale fra palazzo Chigi e i palazzi dei governatori sull’emergenza socio-sanitaria. Fra le tante “lezioni” che il coronavirus severamente impartisce, questa rappresenta una pesante ipoteca sul futuro dell’apparato statale, sul suo equilibrio e sul suo funzionamento.

Con il compromesso sulle riaperture di negozi, bar e ristoranti al 18 maggio, raggiunto nell’ultima videoconferenza fra l’esecutivo e i presidenti delle Regioni, s’è trovato un punto di equilibrio per così dire instabile che segna comunque una ragionevole tregua.

Il governo indicherà linee guida e regole generali uguali per tutti, consentendo differenziazioni territoriali in base all’andamento del contagio. Ma in caso di risalita potrà intervenire per disporre nuove chiusure. Una “pace armata”, si potrebbe definire, per cercare di conciliare l’autonomia regionale con le prerogative del governo centrale. Questo resta, tuttavia, un nodo da risolvere dopo la crisi provocata dal Covid-19 e bisognerà affrontarlo nell’interesse dell’intera collettività per evitare il rischio di una disgregazione nazionale.

È evidente che la querelle è stata aperta per motivi più emotivi e demagogici che razionali, da parte delle Regioni di centrodestra nei confronti del governo giallo-rosso. Sono state, infatti, la Lombardia, il Veneto, la Liguria e da ultimo la Calabria a guidare la “rivolta” contro Roma, in forza degli interessi legittimi degli imprenditori locali e dei rispettivi lavoratori. Sta di fatto che la stessa Conferenza delle Regioni è presieduta dal governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, che milita invece nel Partito democratico. E su questa linea s’è schierato anche il presidente della Puglia, Michele Emiliano, annunciando la decisione di riaprire gli esercizi commerciali e quelli turistici.

Non c’è, tuttavia, un governo “cattivo” che si contrappone alle Regioni “buone” nella gestione dell’emergenza sanitaria e di quella economico-sociale. Né si può ridurre tutto a una schermaglia continua fra maggioranza e opposizione sulla pelle dei cittadini. È necessario, piuttosto, ridefinire e aggiornare in modo definitivo i rapporti fra le varie istituzioni del Paese, senza trascurare ovviamente il ruolo del sindaci che in questa circostanza hanno svolto una rilevante funzione intermedia, sotto la guida del barese Antonio Decaro, nella sua veste di presidente dell’Associazione nazionale dei Comuni italiani.

È stato necessario l’intervento discreto e autorevole del presidente della Consulta, Marta Cartabia, per chiarire che il ripetuto ricorso alla decretazione d’urgenza da parte del presidente del Consiglio contro gli effetti dell’epidemia rientra nell’ambito costituzionale. E il ministro per i Rapporti con le Regioni, Francesco Boccia, ha dovuto appellarsi al Tar della Calabria per far annullare l’ordinanza con cui la governatrice di centrodestra Jole Santelli aveva disposto le riaperture anticipate. Alla quale s’è immediatamente affiancato il suo collega di coalizione, Vito Bardi, presidente della Basilicata, per esprimerle la sua solidarietà.

È pur vero che il nuovo Titolo V della Costituzione stabilisce all’articolo 117 che la tutela della salute è una materia di “legislazione concorrente” fra lo Stato e le Regioni. Ma in questo caso per concorrenza non s’intende competizione, in senso antagonistico o commerciale; bensì partecipazione, condivisione, convergenza. Ed è chiaro, come sostengono per lo più i giuristi, che alla fine la cosiddetta “clausola di supremazia” spetta allo Stato. Tanto più nella gestione di un’emergenza nazionale che va ben oltre la normale attività legislativa.

Al di là delle divergenze politiche, della logica conflittuale maggioranza-opposizione, dei contrasti fra governo centrale e autonomie locali, quello che manca è proprio uno spirito di solidarietà nazionale: cioè di appartenenza a una comunità di uomini e donne che provengono dalla stessa storia e dalla stessa cultura. Una collettività capace di sentirsi Nazione, non solo quando si alzano in volo le Frecce tricolori, quando s’intona l’Inno di Mameli o scendono in campo gli Azzurri. Un popolo che si riconosce nello Stato.

In questa terribile epidemia, nel corso delle settimane in cui siamo stati reclusi in casa, distanziati e isolati, non sono mancati segnali di consapevolezza e di maturità da parte della maggior parte degli italiani. Assediati dal virus, minacciati dalla disoccupazione e dal calo dei redditi, messi duramente alla prova anche nei rapporti interpersonali e familiari, abbiamo dimostrato a noi stessi capacità di resistenza e voglia di rinascita. Si può dire, senza retorica patriottica e senza demagogia, che in generale i cittadini si sono comportati meglio dei politici che li rappresentano. Ed è proprio da qui, dal vissuto di questa drammatica esperienza, che ora bisogna ripartire. La nuova normalità, a cui tutti aspiriamo, fa rima con responsabilità.

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