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Lo Statalismo (selvaggio). Le vittime e i carnefici

 
Giuseppe de Tomaso

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Giuseppe de Tomaso

Lo Statalismo (selvaggio). Le vittime e i carnefici

Il coronavirus è l’essere più misterioso dell’universo, ma una cosa, a modo suo, l’ha chiarita bene

Martedì 21 Aprile 2020, 14:00

Il coronavirus è l’essere più misterioso dell’universo, ma una cosa, a modo suo, l’ha chiarita bene. È lui il soggetto più reazionario, distruttivo, e pauperista mai spuntato sulla Terra. Nel giro di pochi mesi il morbo partito dalla Cina ha tagliato di molti punti il Pil di nazioni che galoppavano come il mitico Ribot, roba che manco i decrescisti più fanatici avrebbero osato auspicare, e immaginare. Infatti. Stanno aumentando e aumenteranno le sacche di povertà, dappertutto. Ma gli effetti devastanti dell’epidemia non saranno uguali per tutti sul piano economico. C’è chi perderà tutto, c’è chi perderà poco e c’è chi perderà nulla. Qualcuno addirittura ci guadagnerà, come di solito si verifica durante e dopo ogni guerra.

Chi ha la fortuna, come sognava Checco Zalone nel film Quo Vado, di lavorare per il sistema pubblico, non ha nulla da temere. Il suo stipendio è inattaccabile, idem il suo posto di lavoro. Anzi, è assai probabile che il suo ufficio accoglierà nuovi colleghi, a causa delle misure di contrasto alla pandemia.

I guai sono e saranno di chi lavora nel settore privato, in larga parte distrutto dalla peste del 2020. Imprenditori (veri) e dipendenti trascorrono giornate da incubo. I primi non sanno se potranno riprendere l’attività produttiva come un tempo. I secondi non sanno se potranno conservare l’impiego. Certo, lo Stato ha messo in campo un po’ di quattrini. Ma nel migliore dei casi questi soldini saranno come l’aspirina, leniranno momentaneamente il dolore, che, dopo qualche ora, si riacutizzerà con maggiore intensità. E poi, parecchi di questi aiuti finanziari sono solo prestiti, che saranno pure a tasso zero, ma in ogni caso sono somme che andranno restituite. Insomma, chi opera nel privato sa che deve farsi il segno della croce e sperare nel Signore.

Eppure, a dispetto di questa distinzione nitida degli effetti differenti del coronavirus sul settore pubblico e sul settore privato, c’è chi fa di tutto per complicare la vita a quest’ultimo. Anzi c’è chi teorizza una sorta di statalizzazione generale dell’economia, utilizzando la pandemia come l’occasione per il definitivo regolamento dei conti con il cosiddetto (fantomatico) liberismo selvaggio. Paradossalmente, i sostenitori di questa tesi sono gli stessi che denunciano lo strapotere degli apparati burocratici nell’ostacolare le iniziative quotidiane di imprese e cittadini. Ma trascurano il fatto che più statalismo significa più burocratismo, più oppressione degli individui da parte di chi esercita un potere, dietro uno sportello pubblico. Nel recente libro (Rubettino editore, 25 euro) di Flavio Felice su Luigi Sturzo (1871-1959), libro intitolato I limiti del popolo, sono riportati alcuni brani cruciali del sacerdote siciliano, fondatore del Partito Popolare: «A uno stato accentratore vogliamo sostituire uno stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali, la famiglia, le classi, i comuni. Che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. Lo stato non va considerato come un ente extra-umano, non va idealizzato come una divinità che pare che rivolga ai poveri sudditi parole eterne di un potere quasi divino».

Ma i problemi, meglio paradossi, non finiscono qui, ossia con il potere pubblico che frena e ostacola il dinamismo privato. Il secondo paradosso riguarda la gestione delle entrate dello stato. Non esistono soldi pubblici, i soldi che gestisce lo stato sono le tasse pagate dai privati. Anche i contribuenti che lavorano nel pubblico avrebbero difficoltà nel trovare lavoro e stipendio, se non fosse per i tributi pagati da produttori e lavoratori privati. Eppure questi ultimi rischiano le perdite, la disoccupazione, i salari a metà, la depressione psicologica, mentre i fortunati titolari di un posto fisso statale possono continuare trascorrere le loro giornate con un’apprensione di gran lunga minore. Non solo. Sono i burocrati, la classe più privilegiata del secolo in corso, a decidere sul futuro economico-esistenziale di quanti (privati), massacrati da una tassazione choc, sostengono i loro stipendi (dei burocrati, si capisce). Insomma. Le vittime finanziano i carnefici. Che, abitualmente e beffardamente, tedono pure a premiare i prenditori parastatali (a volte sodali), non gli imprenditori puri.

Terzo paradosso. Quasi tutti sono convinti di trovarsi a vivere in una stagione dominata dal liberismo. Bah. Ma se lo stato è presente in ogni attività, se lo stato incamera più della metà della ricchezza nazionale prodotta, se lo stato considera, nelle sue leggi, la figura dell’imprenditore ora come un pubblico ufficiale (concezione più benevola) ora come un individuo socialmente pericoloso (concezione più malevola e frequente), se pure per ottenere l’apertura di un edicola bisogna sudare come in Congo, come si fa a dire che subiamo il pensiero unico liberista?

Nessuno vuole tifare per il liberismo (peraltro di impossibile realizzazione). Ma forse bisogna rispettare la verità. E la verità dimostra tutt’altro. A meno che sia in atto un ribaltone concettuale, un’operazione terminologica, tipo quella smascherata dallo scrittore inglese George Orwell (1903-1950) nel suo straordinario romanzo 1984, laddove - la neolingua si nutre del bispensiero - si dice pace per non dire guerra e si dice libertà per non dire tirannia. Oggi si definisce liberismo (selvaggio) ciò che è puro statalismo (selvaggio). Il motivo? Forse si vuole ancora più statalismo, ancora più burocrazia, anche se nei convegni e in tv la burocrazia viene raffigurata come il diavolo.

Attenzione, però. Prima o poi i soldi degli altri (quelli non a paga pubblica) finiscono, o possono finire. E allora, che si fa?

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