Tra le molte parole interessanti scritte da Mario Draghi nel suo articolo sul Financial Times ve ne sono alcune che danno la misura della sfida che i governi nazionali devono compiere per gestire gli effetti della pandemia. L’ex presidente della Bce ha giustamente sottolineato che bisogna aumentare il debito pubblico affinché esso possa assorbire il debito privato. Anche questo è tema che evoca una riflessione sulla necessità di un diverso ruolo dell’Europa, ancora troppo litigiosa, miope e soprattutto incapace di superare egoismi ed estenuanti “stop and go”. L’autorevole richiamo di Mattarella va proprio in direzione della segnalazione dell’urgenza di un cambio di passo e rappresenta un punto fermo per sviluppare le linee programmatiche future. Del resto, senza azioni coordinate e a lungo raggio non si va da nessuna parte.
Quella che stiamo vivendo ormai da un mese è certamente un’emergenza sanitaria, ma attenzione perché cominciamo a misurarci anche con una preoccupante emergenza economica. Molti indizi, inoltre, portano a ritenere che sia non solo possibile ma anche probabile che si debba affrontare presto una crisi anche sociale. Specie al Sud. Crisi preoccupante in un Paese come il nostro che ha il 17% della popolazione over 70 e una enorme quantità di indigenti. Prima della pandemia, l’Istat aveva parlato di 9 milioni di individui in povertà relativa (che guadagnano, cioè, troppo poco) e 5 milioni in povertà assoluta (che non guadagnano quasi nulla). Negli ultimi giorni abbiamo già assistito a scene emblematiche: assalti ai supermercati, richieste d’aiuto alle banche fatte in lacrime, furti alimentari e altro ancora. In verità, tra gli indicatori a nostra disposizione vi è anche la percentuale di debito privato che per quanto riguarda l’Italia è in rapporto al Pil più basso di altri Paesi. Si tratta del 110 %, di cui il 41% è relativo alle famiglie e il 59% alle imprese. L’emergenza Covid-19 viene opportunamente fronteggiata dal governo Conte con misure di distanziazione sociale, ma è chiaro che tutto ciò comporterà significativi costi economici. Sta crollando la domanda di beni e servizi. Si rischia il collasso di alcuni settori con conseguenze immediate sulla mancanza di liquidità per molti, forse per troppi. Potrebbero non essere poche, infatti, le piccole e medie imprese costrette a chiudere. Germania, Danimarca e Regno Unito hanno deciso di pagare direttamente gli stipendi ai lavoratori delle aziende in crisi. Obiettivo: fare in modo che non si spezzi il legame tra componente datoriale e dipendenti.
Il Giappone ha varato un piano anti disoccupazione che si snoda lungo le seguenti direttrici: stimoli fiscali, strumenti monetari, agevolazioni per le imprese. Gli Stati Uniti garantiscono fino al corrispettivo di 2000 euro a famiglia. L’Europa, oltre ai circa 270 miliardi di spese, ha stanziato 1800 miliardi di sostegno alla liquidità. Resta ancora un’incognita il modo in cui questo danaro potrà (e dovrà) concretamente arrivare nelle tasche di imprese e cittadini, anche perché di certo non è stata opzionata la soluzione del cosiddetto “helicopter money”. In linea generale possiamo sostenere che si privilegi più la metodologia delle garanzie che quella del finanziamento diretto. L’Italia ha deciso, almeno fino a questo momento, un paio di percorsi. Il primo: cassa integrazione (anche senza intesa sindacale) in un periodo compreso tra il 23 febbraio e il 31 agosto, ma per un massimo di 9 settimane. Il secondo: aiuti ai bisognosi tramite i comuni. A questi ultimi sono stati anticipati 4,7 miliardi del Fondo di Solidarietà, più altri 400 milioni. Una cifra quest’ultima vincolata all’acquisto di buoni spesa, si teme inferiore alle reali necessità dei cittadini più poveri e comunque in grado di soddisfare solo per pochi giorni i bisogni primari, volendo utilizzare una categorizzazione cara a Maslow. Saranno i comuni ad avere l’onere di individuare le famiglie alle quali destinare i buoni. Occorre pagare l’affitto di casa, quello dello studio professionale o del negozio. Occorre acquistare beni di prima necessità, nel frattempo aumentati nei prezzi anche del 200%. C’è da onorare i pagamenti a rate e c’è da mandare avanti ciò che resta di quelle attività produttive rimaste aperte. La platea, perciò, è molto più vasta di quanto si immagini. Agli autonomi che non superano i 35 mila euro di reddito, grazie all’anticipazione da parte delle Casse di previdenza ed assistenza, è stata garantita una sorta di “una tantum” di 600 euro. Difficile pensare sia sufficiente.
Sono diversi gli interventi presi in considerazione in vista del cosiddetto “decreto Aprile”, quando oltretutto sarà possibile verificare se la collaborazione tra maggioranza e opposizione sarà effettiva o solo di facciata. Il Mef sta lavorando all’ipotesi di una sospensione di tasse e contributi per i mesi di aprile e maggio, non più secondo il criterio dell’appartenenza ad una filiera ma in base a volume d’affari e calo del fatturato. Altre misure allo studio sono quelle relative al rafforzamento delle garanzie della liquidità alle imprese per il tramite di banche e Cassa Depositi e Prestiti.
Quest’ultima potrebbe prestare agli enti locali una cifra corrispondente a quella necessaria per sospendere Imu, Tari ed altri tributi locali. Si tratta di ipotesi e non certo di decisioni assunte. Sarebbe di almeno 100 miliardi la cifra necessaria a contrastare i pericoli di una crisi economica. Sistema produttivo e tessuto sociale non hanno bisogno di annunci, ma di azioni concrete.