Negli ultimi anni, in Italia come nel resto d’Europa, stiamo assistendo a un cambiamento profondo e silenzioso nella geografia delle malattie infettive. Un’evoluzione che non ha il fragore di una pandemia globale, ma che si insinua nelle pieghe del nostro vivere quotidiano, trasformando gradualmente anche il volto della salute pubblica. La recente ricerca congiunta dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e della Fondazione Bruno Kessler lo documenta con chiarezza scientifica: dengue e chikungunya, fino a pochi anni fa considerate patologie esotiche, oggi sono sempre più spesso malattie autoctone, cioè trasmesse localmente, anche nel nostro Paese.
Tra il 2006 e il 2023, l’Italia ha registrato oltre 1.500 casi di dengue e più di 140 di chikungunya importati, ma il dato che impone una riflessione urgente è quello dei casi autoctoni: quasi 500 persone hanno contratto queste malattie sul territorio nazionale. Una soglia che, seppur ancora contenuta, rivela una trasformazione strutturale nella dinamica epidemiologica.
A trasmettere i virus è la zanzara tigre, Aedes albopictus, una specie invasiva ormai diffusa stabilmente in tutta la penisola, favorita dall’aumento delle temperature medie, dagli inverni miti e da estati sempre più lunghe. Secondo l’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC), la zanzara tigre è oggi presente in 22 dei 27 Paesi UE, con l’Italia tra le nazioni più densamente colonizzate. Le aree maggiormente a rischio sono le zone costiere e le periferie urbane, dove la combinazione di alta densità abitativa e microambienti umidi, come tombini, sottovasi, bidoni, crea l’habitat ideale per la proliferazione delle zanzare. I modelli matematici elaborati dai ricercatori italiani mostrano che, in assenza di interventi tempestivi, le ondate epidemiche possono estendersi anche oltre quattro mesi.
In Francia, nel 2022, è stato registrato il primo focolaio urbano di dengue con oltre 65 casi autoctoni nella regione dell’Occitania, un segnale ulteriore della crescente vulnerabilità dell’Europa meridionale. Questo fenomeno non è isolato, ma si inserisce in un quadro globale che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce con termini ormai ricorrenti: health in a changing climate. L’innalzamento delle temperature globali, unito alla maggiore frequenza di eventi estremi come piogge improvvise, alluvioni, siccità alternate a umidità persistente, sta modificando il raggio d’azione di vettori come zanzare, zecche, flebotomi. Il rapporto «Climate Change 2022» dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) segnala come il rischio di trasmissione arbovirale di dengue, chikungunya, Zika e febbre gialla sia aumentato del 30% a livello globale solo nell’ultimo decennio. In Europa, i casi autoctoni di dengue sono cresciuti del 600% tra il 2010 e il 2022, passando da 10 episodi noti nel 2010 a oltre 70 nel 2022. Una curva che, se non contrastata, è destinata a salire. Le implicazioni sanitarie ed economiche sono tutt’altro che trascurabili. Secondo uno studio pubblicato su The Lancet Planetary Health, i costi diretti e indiretti associati alle epidemie autoctone di dengue in Europa potrebbero superare i 200 milioni di euro l’anno nei prossimi vent’anni, tenendo conto delle spese sanitarie, dei giorni lavorativi persi, della gestione dei focolai e dei programmi di disinfestazione.
Senza contare l’impatto sul sistema sanitario nazionale in termini di diagnosi differenziale, formazione del personale e gestione delle emergenze infettive. Cosa possiamo fare, concretamente, per proteggere la salute pubblica senza cedere al panico? La risposta, come spesso accade, non può essere univoca ma multilivello. Innanzitutto, serve una sorveglianza entomologica e virologica costante, soprattutto nei mesi caldi, da maggio a ottobre. I sistemi di allerta precoce, come i modelli predittivi climatici-geospaziali sviluppati dall’ISS e da enti europei, possono aiutare a individuare con settimane di anticipo le condizioni favorevoli alla trasmissione locale, consentendo interventi mirati.
La prevenzione passa anche per gesti quotidiani: eliminare i ristagni d’acqua nei cortili, svuotare i sottovasi, coprire i bidoni, utilizzare zanzariere e repellenti, specie al crepuscolo.
A livello sistemico, invece, è indispensabile integrare la salute umana, animale e ambientale secondo l’approccio One Health, riconosciuto dall’OMS come la via più efficace per affrontare le sfide sanitarie emergenti. Interventi urbanistici mirati, regolamentazione dell’uso di pesticidi, miglioramento del drenaggio urbano, ma anche screening per i viaggiatori provenienti da zone endemiche: tutto contribuisce a costruire una resilienza diffusa. Il rischio zero non esiste, ma esiste la possibilità di trasformare questa nuova vulnerabilità in un’occasione di consapevolezza. La comparsa della dengue a Roma, della chikungunya in Emilia-Romagna, non sono eventi eccezionali, ma segnali precoci di un equilibrio climatico e biologico che si sta spostando sotto i nostri occhi. Ignorarli sarebbe irresponsabile. Non si tratta di creare allarmismo, ma di dotarsi di strumenti concreti, scientificamente fondati, per convivere con un mondo che cambia. La salute dell’uomo e quella del pianeta, oggi più che mai, sono un unico ecosistema. E proteggerlo è una responsabilità condivisa.
















