C’è stato un tempo in cui tre parole bastavano a sintetizzare quello spirito giocoso e allegro e persino passionale che rappresenta il volto più seducente del calcio; non Sole Cuore Amore ma Mitt A Cassan, l’invito pressante rivolto dai tifosi a tutti gli allenatori che hanno avuto a disposizione il genietto di Bari Vecchia.
Un’esortazione diretta soprattutto ai commissari tecnici della nazionale, in una squadra che ha tradizionalmente un rapporto quantomeno complesso con i giocatori di talento, magari anarchici, da Rivera a Beccalossi e Mancini, Zola e persino Baggio. Antonio, discendente dei grandi numeri dieci italiani, nato quarant’anni fa proprio nella notte che consegnò all’Italia di Bearzot la gloria immortale del mundial di Spagna, avrebbe potuto essere il più grande; ha preferito restare semplicemente Cassano, ma forse è stato giusto così. Soprattutto, sappiamo quanto ci ha fatto divertire.
Impossibile dimenticare il suo primo gol in serie A, la giornata seguente all’esordio contro il Lecce, l’11 dicembre 1999. Al San Nicola, il 18 arrivò l’Inter allenata da Marcello Lippi, attacco titolare con Zamorano e Vieri, in panchina due discreti talenti come Roberto Baggio e Alvaro Recoba. La scena, però, se la prendono due ragazzini schierati da Eugenio Fascetti. Prima Hugo Enyinnaya, destinato a rimanere una meteora, con un bolide da fuori area. Dopo, sul finale, quando la partita sembrava inchiodata sull’uno a uno, ecco Antonio che prende palla sulla sinistra, la porta avanti con il tacco, fa secchi con una sola finta Panucci e un certo Laurent Blanc e dopo infila Peruzzi sul primo palo.
In un lampo di pochi secondi, il calcio scopre Cassano. Troppo facile scommettere su quale sarebbe stato il campione del nuovo millennio alle porte, il millenium bug che avrebbe fatto impazzire le difese avversarie.
Nel 2001, dopo un anno a Bari, il salto verso la squadra campione d’Italia, la Roma di Fabio Capello. Il presidente Franco Sensi sborsò 60 miliardi di lire per metterlo accanto al «pupone», a Francesco Totti. Quelli dell’Olimpico furono anni intensi di magie sul campo ma anche di cassanate, neologismo coniato proprio da Capello e finito nel dizionario Treccani per designare quelle che con un eufemismo si possono definire le vivaci intemperanze di Antonio. Come quando durante un Roma-Milan di Coppa Italia, rubo le parole a Wikipedia, «Cassano viene espulso per aver mandato a quel paese l’arbitro Roberto Rosetti, puntandogli il dito contro e dandogli del cornuto facendo il gesto con la mano».
Il genio calcistico di Cassano, però, illumina il prato verde; come si dice in gergo, lui e Totti «parlano la stessa lingua», e la sintonia tra i due è spesso irresistibile. Su YouTube ci sono intere collezioni con il repertorio completo, guardare per credere. Tocchi di prima, aperture geometricamente impossibili, scambi volanti, colpi di tacco, assist al centimetro, una simbiosi tecnica che fa felici non solo i tifosi romanisti. La cosa più vicina a Holly e Benji vista su un campo di calcio, al netto delle arrampicate su pali e traverse dei gemelli Derrick. Prima di perdersi tra Madrid e altri club in Italia, furono gli anni calcisticamente più belli di Cassano, mentre l’amicizia con Totti va e viene, intermittente, come le loro giocate. Ultimamente il termometro segna gelo profondo: pare che Antonio non abbia gradito il suo personaggio per come ne viene fuori dalla serie Speravo de morì prima, dedicata agli ultimi anni di carriera di Totti.
Le magie, però, quelle restano. Nella sua autobiografia intitolata Dico tutto, uscita nel 2008, Cassano raccontò che se non fosse stato per il gol all’Inter nel 1999 sarebbe diventato «un rapinatore o uno scippatore, comunque un delinquente». E scippatore per certi versi lo è diventato; però, per citare un altro eroe della baresità, uno scippatore di emozioni.