«Carenza investigativa» e «assoluta assenza di accertamenti in ordine alle movimentazioni patrimoniali di tutti gli imputati». È una bocciatura in piena regola quella emessa dalla giudice Costanza Chiantini nei confronti dell'impianto accusatorio mosso contro quattro ex consiglieri comunali, Piero Bitetti (eletto sindaco alle ultime amministrative), Emidio Albani, Carmen Casula e Floriana De Gennaro e tre datori di lavoro, coinvolti nell’inchiesta sui rimborsi del Comune di Taranto.
A marzo scorso il magistrato ha assolto tutti gli imputati perchè il fatto non sussiste nononstante le sette richieste di condanna avanzate dalla procura: nelle scorse ore il magistrato ha depositato le 79 pagine in cui ha spiegato sostanzialmente che le lacune accusatorie non consentono «nemmeno di ipotizzare che gli esborsi effettuati dal Comune in favore dei datori fossero stati, quanto meno in parte, devoluti in favore dei dipendenti-consiglieri». Insomma per il giudice non solo non è mai emerso una sola prova della truffa al Municipio, ma soprattutto, il processo ha dimostrato l'esistenza di rapporti di lavoro e anche la regolarità delle retribuzioni e dei “superminimo” concessi dalle imprese ai consiglieri. A queste carenze delle procura, si aggiungono, i numerosi eleenti forniti dal collegio difensivo, composto dagli avvocati Fabio Alabrese, Luca Balistreri, Ciro Buccoliero, Guglielmo De Feis, Andrea Digiacomo, Carlo Raffo, Alessandro Scapati, Giuseppe Sernia e Gaetano Vitale, in grado di dimostrare che non vi era alcun accordo truffaldino tra gli imputati.
Per Bitetti e De Gennaro, inoltre, la giudice si è soffermata sul fatto che «il quesito accusatorio si sia arrestato sulla soglia della mera congettura» dato che risulta «pacifico il pieno inserimento» nelle due aziende ben prima dalla loro elezione in consiglio comunale nel 2017. Bitetti, infatti, era alle dipendenze dell'azienda di famiglia già dal 2014 mentre De Gennnaro addirittura dal 2000.
Per Casula e Albani, assunti invece dopo la loro elezione, il magistrato ha sottolineato che
la data dell'avvio della prestazione di lavoro «al più foriero di sospetto se non accompagnato da ulteriori elementi quanto meno indiziari» non può che restare «un dato neutro».
Ma più in generale, la giudice Chiantini ha chiarire che poiché i rimborsi vengono concessi alle imprese, non si capisce perchè siano accusati di truffa anche i «dipendenti-consiglieri»: quell'accusa sarebbe stata corretta se le indagini avessero portato alla luce accordi illeciti tra questi ultimi e i loro datori di lavoro, ma negli elementi analizzati nell'istruttoria dibattimentale non c'è neppure l'ombra di questa ipotesi. «Tale ipotesi – si legge infatti nella sentenza - è rimasta di fatto inesplorata dagli inquirenti e affidata a mere congetture».
In definitiva, per il magistrato, «gli elementi di sospetto offerti dall’Accusa, calati in un contesto, quello della gestione dei denari pubblici, teatro di frequente devianza ed indebita accumulazione patrimoniale» non hanno «trovato nell’istruttoria dibattimentale materiale probatorio idoneo a fondare una affermazione di responsabilità penale degli imputati in ordine al delitto a loro ascritto, consentendo di formulare esclusivamente una ragionevole ipotesi investigativa, supportata da indizi di colpevolezza adeguati a superare la fase cautelare ma del tutto insufficienti ad assurgere allo standard di ragionevole certezza richiesto in questa sede. A ciò consegue, giocoforza, una pronuncia liberatoria per insussistenza del fatto nei confronti di tutti gli odierni imputati».