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Taranto, lo denuncia per stalking ma poi lo sposa in cella: «Se è diventato pazzo è stata colpa mia»

 
ALESSANDRA CANNETIELLO

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ALESSANDRA CANNETIELLO

Taranto, lo denuncia per stalking ma poi lo sposa in cella: «Se è diventato pazzo è stata colpa mia»

La donna 36enne ascoltata in aula: « Ora stiamo benissimo insieme»

Giovedì 03 Luglio 2025, 13:51

«Sono stata egoista, alla fine gli ho fatto io del male negandogli di diventare papà (…) Se è diventato pazzo è stata colpa mia (…) Ora stiamo benissimo insieme, ci sposeremo nella chiesa del carcere».

A parlare è una 36enne vittima di stalking ascoltata nel corso del processo che vede imputato il suo attuale fidanzato, un 43enne. Le accuse a carico dell’uomo sono anche di incendio, lesioni personali e violazione di domicilio. Nel ricostruire i fatti accaduti dalla rottura del loro rapporto, nell’ottobre 2023, chiuso per sua volontà, la donna ha tentato in ogni modo di ridimensionare le dichiarazioni rilasciate alle forze dell’ordine. «L’ho portato io ad arrabbiarsi così tanto, è stata una cosa grave quella che ho fatto»: al giudice e alla pubblica accusa che incalza con le domande, risponde con fermezza che «sì, lei ha un brutto carattere, a volte è insopportabile», ma interrompere la gravidanza era stata una decisione che spiegava quella reazione, perché quell’uomo (l’imputato ha all’attivo una condanna di primo grado per reati gravi e attualmente è detenuto in carcere) con il quale ora è tornata di nuovo insieme e che vuole sposare, non le ha mai fatto male davvero. Dice tra le righe che se l’è cercata, che ha fatto un grave errore, «ma nella vita ci si può sempre pentire di ciò che si è fatto». Tutte le coppie litigano, loro non sono diversi. Le carte dell’inchiesta, però, raccontano una storia differente: le indagini, coordinate dal pubblico ministero Francesco Sansobrino erano partite dopo l’incendio dell’auto di lei sotto la sua abitazione, nel maggio 2024. Secondo la ricostruzione degli inquirenti il tarantino aveva ordinato a due uomini, mai identificati, di dirigersi verso l’auto e darla alle fiamme. L’imputato era al telefono proprio con la donna quando questa aveva sentito un forte boato e subito aveva sentito il 43enne, ridendo, dirle: «È solo l’inizio di quello che devi passare, devi morire».

Da quell’episodio gli investigatori avevano dato il via alle intercettazioni telefoniche da cui erano emerse tutte le minacce, anche di morte e le vessazioni. Una serie di condotte che non si erano fermate neanche durante la sua permanenza in carcere. Il 43enne aveva ripetutamente chiamato con schede telefoniche sempre diverse e fatto pressioni per tornare insieme: in un caso arrivando a picchiare un altro detenuto, ex cognato della donna, solo per «punirla». Non solo. In un’occasione era piombato nell’abitazione di lei e sfondato la porta introducendosi in casa e prendendola a calci e pugni.

Il «Codice rosso», è una legge in vigore dal 2019 che ha introdotto misure a protezione delle vittime e una velocizzazione dell’iter giudiziario: una rete di sicurezza nell’ambito della violenza di genere. Una rete che può, in alcuni casi, non bastare però a salvare le vittime. Naturalmente vige la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva: intanto, nei confronti del 43enne il giudice ha emesso una sentenza di condanna a 4 anni di carcere.

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