TARANTO - Tre pene confermate, due riduzioni e due assoluzioni. È l'esito del processo d'appello nei confronti dei sette imputati che hanno presentato ricorso dopo la condanna in primo grado per il coinvolgimento nell'inchiesta «Respect» sulle estorsioni ai danni di miticoltori e rivenditori di pesce e frutti di mare di Taranto. Il collegio di secondo grado, presieduto dal giudice Antonio Del Coco ha infatti confermato la condanna a 2 anni Angelo Blasi e a 1 anno e 6 mesi per Angelo Mancini e Christian Morrone e ridotto le condanne per Nicola e Cosimo Blasi: i difensore, l’avvocato Maurizio Besio hanno evidenziato che per una delle accuse di furto non c'era la querela delle vittime e così la pena è scesa da 7 anni e 4 mesi a 5 anni e 4 mesi per il primo e per il secondo a 4 anni e 5 mesi.
Sono stati invece assolti Maurizio Scalera, inizialmente condannato a 1 anno e 8 mesi e Luigi Porzio: per quest'ultimo che in primo grado aveva rimediato una condanna a 2 anni e 8 mesi, il suo difensore, l’avvocato Gianluca Sebastio, è riuscito a dimostrare che i fatti non sono come li ha ricostruiti l'accusa: la corte ha accolto la tesi del difensore e ha annullato la sentenza e trasmesso gli atti alla procura affinché venga rivalutata la sua posizione e l'indagine nei suoi confronti riparta da zero.
All’alba del 21 febbraio 2017 furono sei gli arresti effettuati dai carabinieri del Nucleo Investigativo del Reparto Operativo del comando provinciale di Taranto e dai militari della Capitaneria di Porto: in carcere finì anche Massimo Ranieri, l’uomo ritenuto dagli investigatori al centro nevralgico dell’attività illecita e che al termine del processo con rito ordinario ha rimediato una condanna a 23 anni di carcere, ma in secondo grado il suo difensore ottenne una riduzione a 14 anni.
L’inchiesta «Respect» era una sorta di secondo atto dell'inchiesta madre denominata «Piovra», sul racket delle cozze che aveva portato in carcere Damiano Ranieri. Le nuove indagini si erano concentrate sul figlio di questi, Cosimo, e poi su Massimo Ranieri, fratello di Damiano, che aveva estromesso il nipote dagli affari costituendo un nuovo gruppo del quale, secondo il pubblico ministero Giovanna Cannarile, facevano parte una serie di familiari.
L’inchiesta era stata ribattezzata «Respect» per via dell’indicazione di Ranieri di pretendere il pagamento del «rispetto» dalle vittime. Le attività sono partite dall’ascolto dei colloqui in carcere tra Damiano Ranieri e il figlio Cosimo detto «cioccolata» e poi dai colloqui che all’epoca della sua detenzione Massimo Ranieri intratteneva coi familiari. La seconda inchiesta, in sostanza, aveva dimostrato come la prima ondata di arresti non fosse sufficiente a debellare il fenomeno che, al contrario, era stato ereditato dai familiari stretti degli arrestati. In primo luogo proprio «cioccolata» che avrebbe speso il nome del padre per ottenere denaro dai pescatori: un’eredità scippata dallo zio dopo la scarcerazione di quest’ultimo. «Cioccolata», secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, era stato costretto a sopperire alla mancanza di introiti con lo spaccio di droga tra il quartiere Tamburi e la città vecchia. Le indagini di carabinieri e marinai della Capitaneria furono portate avanti oltre che con l’uso di intercettazioni ambientali e telefoniche anche attraverso il pedinamento per terra e per mare degli indagati: gli investigatori riuscirono a ottenere gli arresti nonostante la reticenza di molte vittime a collaborare con le forze dell’ordine.