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Taranto, va in pensione dopo 29 anni l’anima bella della Polizia: la storia di Marcella

 
Francesco Casula

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Francesco Casula

Taranto, va in pensione dopo 29 anni l’anima bella della Polizia: la storia di Marcella

Sulle Volanti poi tra i “Falchi” e infine a capo degli investigatori che si occupano di criminalità: «Ho applicato la legge senza mai perdere l’umanità»

Sabato 02 Settembre 2023, 07:00

TARANTO - «È stata un’esperienza fantastica e sarei già pronta a ricominciare». Li ha riassunti così i suoi 29 anni nella Polizia di Stato. Marcella De Giorgio, classe 1961 è stata fino al 31 agosto un Commissario Capo della Squadra Mobile di Taranto: di quasi tre decenni trascorsi con la divisa, oltre dieci sono stati impiegati per combattere la criminalità organizzata ionica. Indagini, perquisizioni, intercettazioni: giornate e nottate a seguire le tracce di mafiosi e delinquenti. Un impegno totale fatto con passione, sacrificio, competenza.

Quella vocazione è nata grazie a suo padre, anche lui ha iniziato la sua carriera da funzionario di Pubblica Sicurezza, ma poi ha dismesso la divisa per indossare la toga e offrire il suo contributo alla comunità da magistrato per poi vivere anche un’esperienza da avvocato: «Mio padre – racconta Marcella alla Gazzetta – ha sempre lavorato con coscienza e purtroppo ha pagato per questo: da poliziotto pestava i piedi a chi era intoccabile e fu trasferito da Taranto a Belluno e poi a Fabriano nelle Marche, a Ostuni e infine a Potenza. Noi lo seguivamo. Poi divenne magistrato e anche in quella esperienza agiva secondo la sua coscienza: è stato per me un modello di onestà. E di quelle diverse vite, però, diceva sempre che quella da poliziotto era quella più ricca, più completa. Raccontava che era stata l’unica in cui è riuscito ad entrare pienamente in relazione con le persone. Ecco, quello mi ha segnato».

E così, Marcella decise di provare il concorso da ispettore nella Polizia, ma non disse nulla a suo padre: «avevo paura che fosse contrario e mi ostacolasse, ma col tempo fu soddisfatto della mia scelta». A 31 anni, nel 1994, indossò la divisa: prima il corso, poi la formazione e infine la prima destinazione. Cosenza, in Calabria. «Ci sono stata un anno e mezzo, una città bellissima, universitaria. Quasi una Calabria anomala mi verrebbe da dire».

In quei primi anni ’90, Taranto stava uscendo dalla sanguinosa guerra di mafia tra i fratelli Modeo e il clan «D’Oronzo-De Vitis»: erano gli anni del maxi processo «Ellesponto» e della risposta dello Stato alla criminalità organizzata ionica. Marcella al suo arrivo a Taranto prestò servizio nelle Volanti: «un osservatorio differente, dal quale la malavita strutturata la sfiori soltanto per strada, ma non la approfondisci mai veramente». Anni dopo è stata proprio lei a guidare gli investigatori della Sezione Criminalità Organizzata della Squadra Mobile: da quell’osservatorio privilegiato ha toccato con mano i cambiamenti della delinquenza tarantina e a distanza di tanti anni ha una sua idea sul processo vissuto dopo gli anni ’80: «Credo che la criminalità ionica, organizzata e non, sia stata in questi anni caratterizzata dalla disgregazione. Non c’è più un corpo unico, ma uno sfaldamento diffuso. E a questo – prosegue l’investigatrice di lungo corso – si aggiungono una serie di elementi comuni anche ad altre mafie come la riduzione della violenza: le estorsioni sono diventate, come si dice in gergo, “ambientali”. L’intimidazione non è manifestata perché è nascosta nel curriculum criminale di chi avanza pretese». Anche a Taranto, insomma, la mafia è diventata “silente”, ma non è solo una questione militare o economica: «a Taranto la mafia c’è, ma c’è soprattutto la mafiosità: una ricerca spasmodica di favori, piaceri che permette ai boss di acquisire potere. Alcuni elementi di spicco della malavita tarantina intervengono persino per dirimere problematiche interne a famiglie di quartieri popolari». Anche per questo agli occhi di tanti giovanissimi, quegli uomini diventano figure quasi mitologiche: cattivi esempi da emulare per fare soldi e accumulare potere. «Negli ultimi anni anche i social hanno contribuito a cambiare il volto della delinquenza. È contemporaneamente un campo di battaglia e una vetrina. È ostentazione di forza, strumento quasi di governo del territorio. Alcuni network sono diventati la misura della violenza e influiscono sui giovani che ovviamente non vedono gli anni di carcere e la sofferenza, ma solo questa magnificenza percepita. Anche per questo, credo che stiamo assistendo a un aumento esponenziale della criminalità minorile. Prima i “ragazzi cattivi” erano pochi e li conoscevamo a memoria, ma ora non si tratta più del furtarello, sono tanti e pericolosi». Lei non ha mai voluto guardare serie come «Gomorra» e «Mare fuori», ma ritiene che anche queste abbiano le loro responsabilità: «Non sono una psicologa, ma certamente quelle narrazioni non fanno bene. Non voglio dire che debbano abolirli, ma dobbiamo ammettere che mancano i contrafforti. Mancano i buoni e la famiglia, la scuola e anche lo Stato talvolta non hanno saputo essere esempi autentici ed efficaci».

Eppure quella sorta di miscellanea tra riconoscenza e timore reverenziale non basta alla criminalità per dominare un territorio: le zone si controllano con la violenza. E le armi: «a Taranto si spara troppo, c’è un numero incredibile di armi nonostante i sequestri che periodicamente vengono eseguiti, ma soprattutto c’è l’attitudine a considerare i delitti che si susseguono come fatti isolati, ma spesso non è così». Marcella comincia così un viaggio a ritroso tra le centinaia di indagini che ha portato avanti. Dall’omicidio di Graziano Rotondo nel bunker delle “case parcheggio”, a quello di Mario Reale avvenuto nel 2016 sempre al quartiere Tamburi. E le inchieste sui clan: a partire da «Buozzi» che nel 2011 inflisse il primo colpo al clan Pascali, poi il blitz antidroga «Serafico» in Città vecchia, gli arresti per «500 cash» sui “cavalli di ritorno” fino alle maxi inchieste di mafia «Città nostra» e «Città nostra 2». E ancora l’inchiesta «Japan» che ha riportato in carcere nomi del calibro di Mimmo Cesario e Patrizio Pignatelli. «Quest’ultima – sorride Marcella – è stata la più difficile: lavorare su una figura come Cesario non è stato affatto facile, ma ci siamo arrivati. E poi – aggiunge – mi ha sempre colpito quello che abbiamo scoperto su Pignatelli: dopo il carcere aveva assunto un ruolo apicale nell’indotto della sanità e in particolare in una cooperativa di primo soccorso. È stata la dimostrazione che non solo la mala ionica continua a infiltrare la vita economica del territorio, ma soprattutto senza il nostro intervento avrebbe avuto suoi uomini sulle ambulanze, gente che era costantemente in giro e quindi in grado avere un controllo capillare del territorio. Non è una cosa da poco».

E tra tante soddisfazioni professionali insomma, spunta anche un rimpianto: «Sì, uno solo, ma con me stessa. Tanti anni fa feci un’indagine documentale sulla gestione del canile comunale: un’indagine che coinvolgeva anche vertici di vecchie amministrazioni comunali. La consegnai in Procura e di tutta risposta fui trasferita per qualche mese a gestire la raccolta fondi di un evento benefico. Quella denuncia morì lì: oggi penso che avrei dovuto denunciare tutto alla stampa, ma da bravo soldato, all’epoca rimasi in silenzio. Poi fortunatamente la vicenda fu comunque scoperta dalla magistratura e la gestione di quel canile fu interrotta».

Marcella fin dal suo ingresso in Polizia è stata per strada. Anche per indole, come ha sottolineato più volte. Una donna sulle Volanti poi tra i “Falchi” che lei definisce «tra i più necessari in una città come Taranto» e infine a capo degli investigatori che si occupano di criminalità: «Da donna – racconta oggi – è stato sicuramente più difficile: all’inizio della mia carriera non eravamo in molte nelle Volanti, anzi. Mi sono guadagnata pian piano la stima dei colleghi, ma lo stereotipo c'è. Io per prima l’ho in qualche modo alimentato: mi vestivo in un certo modo per stare in un ambiente maschile. Ma fortunatamente oggi le cose stanno cambiando: le donne poliziotto sono molto più forti, hanno più coraggio. Ma in generale mi viene da dire che gli stereotipi fanno male a tutti, anche agli uomini. Perché al di là del sesso, contano altre cose: non solo essere integerrimo, ma avere un senso di umanità. Perché la legge è la legge, ma il piano umano va compreso».

Anche per questo nei giorni scorsi, quando il Questore Massimo Gambino ha riunito tutto il personale nella palestra di via Palatucci per salutarla, il dirigente della Squadra mobile, Cosimo Romano, l’ha definita «l’anima bella polizia di Stato». Parole che l’hanno commossa: «È quello che predico da tanto: si deve applicare la legge, ma senza perdere l’umanità. Forse anche per questo mi capita di avere buoni rapporti anche con persone che ho arrestato».

Il suo futuro ora è costellato di mille idee e progetti, ma uno in particolare la attrae più di tutti: «sono tornata da poco a vivere in città dopo tanti anni a Martina, e vorrei dare il mio contributo. Ho scoperto i ragazzi di “SiAmo Taranto” che puliscono luoghi della città sapendo che presto qualcuno tornerà a sporcare. Ma non mollano. In tutti questi anni in Polizia ho cercato anche io di migliorare la mia terra sapendo che prima o poi quella delinquenza sarebbe tornata: ecco ora ho una nuova occasione per continuare a farlo. E lo farò con loro perché sono un bell’esempio».

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