BARI - L’appuntamento è fissato per oggi pomeriggio alle 15 nella sede romana di Confindustria. Ma l’oggetto - esame preliminare della procedura di cassa integrazione per riorganizzazione aziendale - dice poco o nulla rispetto alle prospettive che attendono la società Acciaierie d'Italia, sodalizio partecipato da ArcelorMittal e Invitalia e affittuario del complesso aziendale Ilva. L’azienda guidata da Lucia Morselli ha comunicato alle organizzazioni sindacali la necessità di ricorrere alla cassa integrazione straordinaria per la durata di 12 mesi, a partire dal 28 marzo, per complessivi 3mila lavoratori in tutti i siti del gruppo, di cui 2500 a Taranto, l’ennesimo ricorso ad ammortizzatori sociali, sia pure con diversa causale, dal luglio del 2019 ad oggi.
LE CARTE Nel documento di 13 pagine inviato alle organizzazioni sindacali si annuncia il piano di ristrutturazione e di investimenti e l'assetto di marcia che prevederà inizialmente una produzione di 15mila tonnellate d'acciaio al giorno rispetto alle circa 20mila tonnellate al giorno producibili ad assetto produttivo ordinario. Questi livelli di produzione, si legge nel documento a firma del capo del personale Arturo Ferrucci, «pongono in prospettiva in strutturale squilibrio il rapporto costi-ricavi dell'intero ciclo produttivo gestito da Acciaierie d'Italia» e dunque «determinerà inevitabilmente una riduzione del personale presente, oltre a dover gestire momentanee inattività dello stesso, derivanti da temporanee fermate, parziali o anche totali, di tutti gli impianti dei diversi siti a valle del ciclo produttivo a caldo di Taranto». Per l'unità produttiva di Taranto, spiega l'azienda, il piano prevede «rifacimento ed avvio dell’altoforno 5, investimenti per la costruzione di un nuovo forno elettrico, investimenti tecnici e miglioramento qualità, adeguamento e upgrade ambientale degli impianti esistenti». Gli altri 500 lavoratori da collocare in cassa integrazione negli altri siti sono così suddivisi: 15 a Racconigi, 10 a Legnaro, 150 a Novi Ligure, 30 a Marghera, 250 a Genova, 40 a Milano, 5 a Paderno. L'azienda spiega che «solo il completamento della prevista riorganizzazione aziendale, che si presume si concluderà nel 2025, e quindi il raggiungimento di volumi produttivi pari a circa 8 milioni di tonnellate l'anno consentirà il totale impiego delle risorse». Come dire, per altri 3 anni sarà necessario ricorrere agli ammortizzatori sociali per evitare traumatiche riduzioni di personale.
IL FUTURO Tale scenario non tiene conto però delle dinamiche, decisamente più complesse, riguardanti la tenuta della società Acciaierie d’Italia, la trasformazione del contratto di fitto in contratto di acquisto del complesso aziendale ex Ilva, il caro energia e la sua coniugabilità - sotto molteplici punti di vista - con un futuro fatto di forni elettrici e non più di tradizionali forni a carbone. Una delle condizioni necessarie a trasformare il fitto in proprietà è rappresentata dal dissequestro degli impianti dell’area a caldo del siderurgico di Taranto, sottoposti a vincolo dal 26 luglio del 2012 in quanto accusati di essere fonti di malattie e morti per gli operai e per chi abita nelle vicinanze. La corte d’assise di Taranto il 31 maggio dell’anno scorso, nel dispositivo di sentenza con la quale decise la condanna dei 47 imputati nel processo «Ambiente svenduto», sancì la confisca dell’area a caldo. Una misura di sicurezza, non obbligatoria, sulla quale diventerà competente a decidere la sezione di Taranto della corte d’assise d’appello di Lecce quando saranno depositate le motivazioni del verdetto. Il deposito era previsto per la fine di novembre, ovvero alla scadenza dei sei mesi contemplati nel dispositivo, ma ne sono passati quasi nove di mesi e non ci sono novità sul punto. Nel frattempo - l’ultima porta la data dell’altroieri, 8 marzo - sono state depositate ben 6 correzioni materiali di errori presenti nel dispositivo di sentenza, quasi tutte riguardanti il rapporto «economico» tra imputati e parti civili, a dimostrazione della complessità della vicenda. Nel documento inviato ai sindacati, Acciaierie d’Italia dichiara di aver realizzato l’88% delle prescrizioni previste nel piano ambientale, un numero che giustificherebbe una richiesta di dissequestro degli impianti da parte dei legittimi proprietari - l’Ilva in amministrazione straordinaria tramite i suoi tre commissari - ma evidentemente la prudenza è massima: mancano le motivazioni alla base della disposta confisca; la corte costituzionale affrontando nel 2013 il caso Ilva sancì che occorreva attendere il pieno adempimento del piano ambientale, e l’88% sotto quest’ottica potrebbe non essere ritenuto tale. È vero che rispetto al 31 maggio 2021, giorno di lettura del verdetto, sono stati fatti considerevoli passi avanti come l’installazione dei filtri Meros alla linea D dell’agglomerato - rimedio formidabile contro le emissioni di diossina - ma per l’altra linea, quella E, occorrerà attendere sino alla fine dell’anno. Tra le condizioni sospensive per la trasformazione del fitto in acquisto ci sono anche - e sono di competenza di Acciaierie d’Italia - l’accordo sindacale e il nuovo piano industriale, aspetti sui quali si naviga a vista. Manca una prospettiva produttiva certa - visti i costi del gas e del rottame, i forni elettrici paiono sempre più lontani - e l’annunciato rifacimento dell’altoforno 5 - fermo dal 2016 - così come è stato presentato nel documento inviato ai sindacati non sembra proprio militare nella direzione dell’auspicata decarbonizzazione.
I SOLDI Infine - per ultima ma non proprio ultima questione - c’è il nodo risorse, forse il nodo dei nodi. Il mancato trasferimento ad Acciaierie d’Italia di parte dei soldi assegnati a Ilva in amministrazione straordinarie per effettuare le bonifiche nelle aree del siderurgico rimaste nel perimetro dell’azione commissariale, rischia di far mancare alla società partecipata da ArcelorMittal e Invitalia le risorse necessarie per far fronte agli interventi elencati nel documento inviato ai sindacati - stimati in 2 miliardi di euro - e anche alla gestione quotidiana, come dimostra lo stato di sofferenza in cui versa l’indotto.