Emily Cooper (Lily Collins), giovane americana energica e positiva, sbarca a Parigi per lavorare nell’industria del lusso e imporre ai francesi la sua etica del lavoro. Non parla la lingua di Molière, ama la bistecca ben cotta e colleziona ogni accessorio con motivo Tour Eiffel.
L’orizzonte è un «bateau» carico di incomprensioni linguistiche e «clash» culturale ma il romanticismo è dietro l’angolo perché Emily cerca l’amore nella città dell’amore. Una realtà alternativa dove nessuno prende la metro, tutte le donne sono glamour e gli uomini seduttori inveterati. «Overdressed» e «glassata», specializzata nella strategia digitale e dotata di un inossidabile buonumore, Emily si vuole la versione 3.0 di Carrie Bradshaw. Il creatore d’altronde è lo stesso. Vent’anni dopo «Sex and the City», Darren Star esilia un’americana sulle rive della Senna riducendola di taglia a immagine della sua piccola tracolla.
L’eroina di Netflix è sola, le amiche sono figure senza rilievo che consuma con il croissant. Se Carrie conduceva un’inchiesta sociologica provando a definirsi attraverso il riflesso moltiplicato all’infinito delle donne e degli uomini che incontrava, Emily è lo specchio di se stessa, si fa dei selfie, si pubblica, si piace. Non fotografa gli altri, non ha ritratti da interrogare, non si nutre dell’alterità culturale e sessuale, non evolve.
È un «influencer» che obbliga il mondo ad adattarsi al suo contatto, donando lezioni sulla moda e battendo i tacchi tre volte senza trovare un altrove. La seconda stagione prova a inventare nuove circolazioni sentimentali ma Barbie-Emily inciampa sul «ménage à trois» e le Manolo Blahnik su cui si radicava saldamente Carrie, salendo sulle vette dell’autoaffermazione con la sua banda di amazzoni audaci e senza limiti.