Avevamo un’idea così vaga della Turchia che quando i siriani ci dissero che per entrare ad Aleppo, la strada migliore era attraversare il confine da Antakya, sbagliammo volo: e finimmo ad Antalia. Cinquecento chilometri più a ovest. Arrivammo con le scorte di Aulin. Immaginando Antakya come il nostro estremo sud. Come una Calabria sperduta e selvaggia. E invece sbarcammo in questa città magnifica, raccolta intorno a un fiume: sembrava il Trentino - i ponti in legno, i parchi, i caffè sul corso. Le sere di musica. Da allora, per anni, ho vissuto tra Antakya, Gaziantep, Sanliurfa. Diyarbakir. In base alla linea del fronte.
La Turchia crollata con il terremoto è la Turchia per cui oggi sono ancora qui. La Turchia che mi ha nascosto dai jihadisti, mi ha curato da un proiettile e dal tifo, mi ha sfamato e riscaldato nei suoi campi profughi, e stretto forte nelle mie notti in bianco: la Turchia che mi ha salvato - quando ad Aleppo ero l’unica rimasta, e in Europa dicevano che non c’era guerra: che i morti erano manichini. La Turchia che non abbiamo mai capito, quella che ha chiesto l’adesione all’Unione Europea nel 1987, e in oltre trent’anni, solo uno dei 35 capitoli da discutere è stato chiuso, perché nella nostra testa, la Turchia è ancora arretrata: mentre Antakya è la città in cui in un’ora ho avuto residenza e codice fiscale.
La città in cui si va e torna da Istanbul in aereo a costo fisso, 30 euro, perché che paese è, altrimenti? Senza collegamenti? Guardate le tariffe di un Bari-Milano. Lecce-Roma. Provate ad andare e tornare. L’unica è il Flixbus.
Le zone ora in macerie sono il simbolo di Erdogan. Che è al potere da così tanto tempo, dal 2003, per una ragione molto semplice: perché non solo ha rimodernato la Turchia, ma in un mondo che va in direzione opposta, ha ridotto le disuguaglianze. Raddoppiando la classe media dal 20 al 40 percento.
Nel 2003, spesso c’erano ancora zone senza elettricità. Poi, certo, sono un simbolo nel senso che sono il simbolo anche della sua parabola: hanno ceduto gli edifici più nuovi, perché nonostante il rischio sismico, si costruisce comprando i certificati di staticità. O aspettando il primo condono. E con cemento che è sabbia. In Turchia l’edilizia è il regno del clientelismo.
Ha ceduto anche la sede dell’AFAD. L’agenzia per la gestione dei terremoti. Costruita in violazione delle sue stesse norme. Ma l’abbiamo imparato con il Covid. C’è la natura, sì. Ma poi c’è sempre l’uomo. C’è sempre la politica. E quindi Assad, con un’interpretazione letterale del diritto internazionale, ha bloccato gli aiuti, pretendendo che siano consegnati a Damasco, che siano consegnati all’unico governo riconosciuto: da cui poi non raggiungeranno mai le aree colpite, perché le aree colpite sono ancora sotto il controllo dei ribelli.
Perché comunque la guerra, in Siria, non l’ha notato nessuno: ma non è finita. Assad ha bombardato persino gli sfollati: tra la prima scossa e la seconda. A essere finita è solo la nostra attenzione.
L’ultimo dei miei amici siriani ancora vivo è ora sotto le macerie di Idlib. Dalle foto satellitari, è tutto grigio. Il caffè di Gaziantep in cui scrivevo, e anche quello di Sanliurfa. La panetteria di Diyarbakir con i miei biscotti preferiti. Il bazar con i piatti di rame per mio padre, e le nocciole, e il tè e le sciarpe. Quello che ogni volta che rientravo da Aleppo mi regalava la Nutella. Quello del pesce alla griglia: che quando ero lì a cena, cambiava disco e metteva Capossela. Della Turchia che mi ha aperto ogni porta, e che negli anni complicati seguiti all’inchiesta Regeni, mi ha rilasciato un tesserino stampa perché continuassi a viaggiare, e raccontare, della Turchia senza cui avrei cambiato mestiere non resta più niente. Ha ceduto anche parte della mia casa di Antakya. La guesthouse di Sorella Barbara, nella città vecchia. Che è insieme chiesa, moschea e sinagoga.
E da cui la governante, rispondendo al telefono da in mezzo alle macerie, mi ha detto: Oddio, ma sei a Kabul? Ma come? Qualsiasi cosa, dimmi se posso aiutarti.