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Il modello Kurdistan, un’oasi di democrazia stabilità e prosperità

 
Francesca Borri

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Francesca Borri

Il modello Kurdistan, un’oasi di democrazia stabilità e prosperità

I curdi sono il più ampio popolo al mondo senza stato. Qui dal 1991 arrivano due terzi degli aiuti americani all’Iraq

Mercoledì 02 Novembre 2022, 13:19

ERBIL - «Arriverò un po’ in ritardo», si scusa il mio interprete. Anche io, dico. Piove anche qui. Si è allagato tutto. «No», dice. «Qui bombardano». Non esiste una linea del fronte. Il nord dell’Iraq è tutto un fronte. Da mesi, ormai, le incursioni della Turchia sono tre, quattro al giorno. Nel 2021, sono state circa 1600. Quelle dei jihadisti dell’Isis, invece, quasi 300. Più quelle dell’Iran. E questo è quello che viene studiato come un modello per tutto il Medio Oriente: il Kurdistan. Come dicono gli americani: un’oasi di stabilità, democrazia, e prosperità.

In realtà, i soli dati disponibili, qui, sono questi. I dati militari. E quindi, perché è un modello? Su cosa si basa la sua fama? Non si sa. «Nessuno sa quale sia il Pil. O il tasso di disoccupazione. Il tasso di povertà. Non esistono statistiche affidabili. Nessuno sa cosa fa il governo: quanto spende, e come. L’ultimo bilancio è di 9 anni fa», dice l’economista Niyaz Najmaddin Noori. «Con tutti i conflitti, tutti gli sfollati, manca persino il numero esatto degli abitanti», dice. Tanto più che i curdi non hanno un territorio definito. Alcune aree sono ancora contese. Non le aree a etnia mista, però: quelle con più petrolio.
I curdi sono il più ampio popolo al mondo senza stato. Sono 30 milioni, sparsi tra la Turchia, la Siria, l’Iraq e l’Iran, ed è qui, dove sono circa 5 milioni, il 15 percento della popolazione, che hanno visto il peggio: fino a essere gassificati da Saddam. Ma con la sua caduta, nel 2003, si è ribaltato tutto. L’Iraq si è sgretolato: mentre i curdi, invece, hanno fondato un proprio governo a Erbil, e un paese normale. E quindi, qui, eccezionale. Un paese di strade, scuole, parchi. Ospedali. Tribunali. Poliziotti invece che miliziani. In realtà, però, non è che il feudo di due famiglie: i Barzani e i Talabani. I Barzani controllano Erbil e il nord-ovest, e i Talabani Sulaymaniya e il nord-est. «Sono proprietari di tutto. E sono così rivali che a lungo, nel nord-ovest ha funzionato solo la Korek, la compagnia telefonica dei Barzani, e nel nord-est solo la Asiacell, la compagnia telefonica dei Talabani», dice Farman Rashad, a capo di un’osservatorio sulla corruzione dal nome eloquente: Stop. «Parlavamo in roaming».

Il problema, dice, è strutturale. «Tutto deriva dalla legge 4/2006 sugli investimenti, che concede agli imprenditori terra gratuita e dieci anni di esenzione dalle tasse. E ovviamente, ti approvano il progetto solo in cambio di una percentuale. Non è come Baghdad, in cui paghi anche l’usciere: altrimenti, in un ufficio pubblico manco entri. Però, per esempio, la ragione per cui non abbiamo elettricità è che il gas viene esportato: per incassare gli oneri doganali». Abbiamo tanto contestato Saddam, dice: e poi, però, abbiamo riprodotto il suo centralismo. All’epoca, era socialismo. Oggi è convenienza, dice. E incompetenza. Un curdo su due è un dipendente statale. «Il petrolio crea classi dirigenti capaci solo di spartirsi i profitti. E crearsi reti clientelari. Non è una risorsa: è una dannazione».

I Barzani e i Talabani sono così tanti, in effetti, e così ovunque, che spesso ti tocca domandare: Ma quale Barzani? Quale Talabani? I curdi ormai sono identificati con i curdi del Rojava, il nord della Siria. Ma nel nord dell’Iraq, sono l’opposto. In Rojava, tutto è deciso in assemblee popolari, e il riferimento è la Atene di Pericle. A Erbil, è Dubai. Con queste strade a quattro, a sei, a otto corsie, strade che sembrano autostrade, e poi solo case, e case e case: gettate lì a caso come bastoncini di uno Shangai. Ha un centro. Una fortezza, su una collina. Con il bazar intorno. Ma se dici “centro”, oggi, un tassista non va lì, va al Family Mall. Va al centro commerciale. Perché dal 1991 in poi, due terzi degli aiuti americani all’Iraq sono stati destinati al Kurdistan. E ora questa è la vita, qui, di mall in mall: mall tutti identici, tutti con gli stessi negozi, e i negozi tutti con le stesse cose, le cheesecake, i frappuccini - il trenino per i bambini, e l’ascensore di vetro, i popcorn e i palloncini e una ragazza all’ingresso che ti spennella di fard e ti offre il campioncino di profumo. Poi entri nella toilette, e non c’è l’acqua.
«Ma perché questa è Erbil. Una città in cui non sei che un consumatore», mi dice il giornalista Koshan Zamani. «Una città pensata non per abitare, ma per stare. E soprattutto, pensata per i più ricchi. Una città in cui non hai una piazza. Perché non hai politica».

I curdi hanno un solo obiettivo: l’indipendenza. Si sono alleati con tutti, per averla. E da tutti, prima o poi, sono stati traditi. Anche da se stessi. I primi anni di autonomia, dopo la prima guerra del Golfo, furono anni di guerra civile tra i Barzani e i Talabani. E per costringere i Talabani alla resa, i Barzani non esitarono: chiamarono Saddam.
E infatti, ora si sono alleati con la Turchia.

Il nemico numero uno. In cui Abdullah Ocalan è in carcere da 23 anni. «Ma perché la geografia, l’economia, la politica: tutto va verso la Turchia», dice Mustafa Bayar Dosky, sociologo. «Non abbiamo alternativa. Abbiamo vicino l’Iraq, che è sempre un pericolo. La Siria che non esiste più. E l’Iran, che controlla Baghdad attraverso gli sciiti. E ci attacca con le sue milizie. Non resta che la Turchia, per cui siamo un mercato rilevante. E che così, soprattutto, ci divide dai suoi curdi», dice. So che è contraddittorio, dice. Ma questo è il Medio Oriente, adesso. Nessuno ha una strategia, sono tutti in cerca di ridefinizione: ma perché gli Stati Uniti non hanno più una strategia. I curdi possono agire solo nel margine di manovra lasciato dagli altri, dice. Ma quale è, ora, questo spazio? Eppure, fino a ieri i curdi erano i nostri eroi: la nostra fanteria contro l’ISIS. E in ricompensa, si aspettavano l’indipendenza. Ma con le mille minoranze del Medio Oriente, e non solo, si rischiava l’effetto domino. E sono stati dimenticati.

E di nuovo, bombardati da tutti. Per il mondo, la storia qui è questa. I jihadisti, la Turchia, l’Iran. Gli Stati Uniti. Ma per i curdi, la storia vera è Iskan Street. Il ritrovo dei ventenni. In cui tra un tè e un kebab, non si discute di riforme: ma di rotte per l’Europa. «Qui hai libertà di parola, sì. Ma nessuno ti ascolta. Non conti niente comunque», dice Muzhda Mahmud Muhammad, deputato di Next Generation, il movimento espressione della Primavera Araba, appena rilasciata dopo l’ennesimo arresto: per una manifestazione contro il rinvio delle elezioni. Ma senza il voto, dice, quale opzione rimane, se non la protesta? E senza la protesta, quale, se non partire? «Il Kurdistan non è stabile: è immobile. Non hai cittadini e diritti, qui. Hai solo affari e affaristi. Semplicemente, ogni tanto i ruoli si invertono. Ma alla fine, sono tutti uguali».

Girato l’angolo del bazar, appena ristrutturato dall’Unesco, con le sue volte perfette, le sue vetrine di oro e tappeti, ti ritrovi nel quartiere arabo: ti ritrovi tra le macerie. Sembra Pompei. Solo randagi stanchi, tra mozziconi di muri. Solo vento. I curdi ti invitano nei musei sugli assiri, nelle chiese cristiane. Nei cimiteri yazidi. Ma poi nelle zone liberate dai jihadisti hanno raso al suolo ogni casa. Come altri, anni fa, hanno raso al suolo le loro.

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