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Parte da Potenza Città d'arte l'iter di Basilicata museo diffuso

 
Luigia Ierace

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Luigia Ierace

Parte da Potenza, Città d'arte, l'iter di Basilicata museo diffuso

Parla Elisa Acanfora, docente di Storia dell’arte moderna e coordinatrice della Laurea internazionale in Operatore dei Beni Culturali

Domenica 21 Giugno 2020, 11:08

Da Matera, “Capitale europea della cultura 2019” a Potenza, “Città europea dello Sport” e “Città d’arte”, che raccoglie questa importante eredità per guardare a tutto il territorio della Basilicata. Un accostamento che farebbe rabbrividire i più incalliti campanilisti, che si sono scatenati nelle querelle, di calcistica memoria tra Potentini e Materani, alla notizia del riconoscimento assegnato dalla Regione al capoluogo lucano, almeno a giudicare dai commenti sui social. Un dibattito che la Gazzetta ha voluto riprendere cercando di fare un passo avanti e che va oltre la modifica e l’introduzione di Potenza nell’elenco delle “Città d’arte” della Basilicata. Ne parliamo con Elisa Acanfora, professoressa di Storia dell’Arte moderna e coordinatrice del corso di Laurea internazionale in Operatore dei Beni Culturali dell’Università della Basilicata.

Si può davvero partire da “Matera 2019” per centrare uno degli obiettivi mancati della Capitale europea della Cultura: diventare la porta di accesso verso la Basilicata, aprendo ai territori, dalle colline materane alle aree interne?

«”Matera 2019” è stata un grande faro che ha illuminato la Basilicata e l’intero Sud d’Italia. Ma non si poteva pretendere, in un lasso di tempo così breve, che si riuscisse a valorizzare appieno un’intera regione. È un traguardo che ci dobbiamo porre nell’immediato. La città dei Sassi è ormai acclarata anche in una visione internazionale, ora si può ripartire da Potenza “Città d’arte” per valorizzare l’intero territorio lucano».

Insomma, i due recenti titoli assegnati a Potenza potrebbero segnare una continuità con “Matera 2019”?

«Certo, si deve lavorare su questo, partendo da Potenza per ripensare il territorio lucano nella sua interezza perché ha tante possibilità inesplorate. Sul modello umbro, la Basilicata va vista come un museo diffuso. È una regione che non si qualifica tanto per l’emergenza di taluni monumenti, quanto piuttosto per essere un tessuto intatto con molti beni culturali capillarmente diffusi. Dall’archeologia, al mondo contemporaneo, passando per il Barocco».

E non è un caso che lei citi proprio il Barocco?

«Un primo progetto concreto di riscoperta e valorizzazione delle “Città d’arte” lucane è la realizzazione dell’”Atlante del barocco in Basilicata” che si potrebbe realizzare quest’anno in occasione dell’anniversario dei 50 anni dalla nascita delle Regioni italiane, e di cui l’Università della Basilicata è capofila e che coinvolge i Comuni lucani».

Facciamo un passo indietro. Il titolo “Città d’arte” ha fatto molto discutere, ma esiste una sua definizione?

«Non mi risulta. Mi sono confrontata anche con altri colleghi universitari e delle Soprintendenze e sembra non ci siano criteri nazionali. In base alla legge nazionale sul commercio, la Basilicata lo ha utilizzato all’interno della normativa sull’apertura degli esercizi commerciali, ma la Regione Toscana, ad esempio, lo ha fatto all’interno di una delibera che definisce i criteri per l’applicazione della tassa di soggiorno (delibera 141 del 19/2/2018)».

Cosa pensa del fatto che la Regione abbia indicato Potenza come “Città d’arte”?

«Quando si parla di beni culturali si rischia sempre che ci sia una strumentalizzazione da parte della politica. Non è questo il piano su cui la questione va posta. Come docente non voglio schierarmi. Secondo me, entrambe le posizioni, espresse in consiglio regionale da Bellettieri e Cifarelli, sono interessanti e corrette. Sono favorevole che Potenza sia stata designata “Città d’arte” e mi sembra interessante anche la posizione di chi ha rimarcato il concetto da un punto di vista economico più ampio, sottolineando il fatto che la legge nazionale demandi alle Regioni, il compito di indicare le proprie “Città d’arte” e i luoghi turistici. A questo punto, però il discorso si deve spostare dal commercio a un livello più alto, perché questa designazione, di fatto, innesca una discussione e una valorizzazione che costituiscono sempre il primo passo verso altri processi virtuosi di turismo e, prima ancora, di sviluppo culturale ed economico, a livello locale».

Allora la questione va spostata anche su un altro livello. Lo Stato demanda alle Regioni il compito di stilare questo elenco, ma chi indica i luoghi d’arte?

«Non ci si può affidare a cittadini, gruppi o uffici comunali. Ci sono storici dell’arte, esperti, competenze già presenti in regione: dall’Università, alla Direzione regionale musei, alla Soprintendenza, ai Centri di ricerca (Cnr), all’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro. E questo consentirebbe una valorizzazione basata su dati scientifici aggiornati agli ultimi studi e ricerche».

Non è escluso, quindi, che l’elenco possa essere ancora rimodulato?

«Sicuramente. Manca la preziosa Irsina e questa è una carenza macroscopica, ma non c’è neppure Muro Lucano con gli argenti degli Orsini, Ferrandina con i suoi stucchi barocchi o Tursi con la sua Rabatana. Solo per nominare alcune città che potrebbero entrare nell’elenco. Bisogna uscire da queste logiche di campanile e affidarsi a specialisti per un lavoro serio di valorizzazione che possa avvantaggiare tutta la regione. Devono prevalere logiche culturali, solo così questo diventerà un processo virtuoso».

E non è certo un caso che ad attivarlo siano proprio norme di carattere economico?

«Può sembrare paradossale, ma è giusto che la valorizzazione delle “Città d’arte” sia vista nel cuore dei processi economici, oltre che culturali e identitari. Il turismo, ma prima di tutto la conservazione e la valorizzazione dei beni, portano benefici di sviluppo sociale. Questi aspetti vanno tutelati pensando alle potenzialità anche economiche che ha sempre avuto l’Italia, a partire dal “Gran Tour”».

Nel tempo è anche cambiata la percezione del “viaggiatore”...

«Basti pensare che quando Milano è diventata “Città d’arte” ha suscitato perplessità, avvicinata a Firenze, Roma e Venezia. Oggi sicuramente è cambiata la percezione esterna che il turista italiano o straniero ha della città».

Quali le strade da intraprendere?

«L’importante è fare una corretta valorizzazione che tenga conto della conservazione del bene. Le Regioni devono essere il cuore di questo processo. Nello spirito della legge nazionale, non è un caso che sia demandata alle Regioni la stesura dell’elenco delle proprie “Città d’arte”, perché questo possa innescare un meccanismo che parte dall’interno, dallo studio del territorio e dalla consapevolezza del suo valore».

Ma per far questo devono scendere in campo i professionisti?

«Una valorizzazione seria guidata da esperti, storici dell’arte, architetti, archeologi, restauratori. Professionalità che non mancano in regione».

In conclusione, quale tipo di sviluppo intravede per la Basilicata?

«Una seria riflessione sulle “Città d’arte” lucane, che porti a una concreta valorizzazione del territorio, è quanto mai urgente e necessaria in questo momento, non solo di ripartenza post-covid19, ma anche perché da tempo si assiste a una grave emigrazione di giovani, soprattutto laureati, che costituiscono le migliori risorse e il futuro della Basilicata».

Una regione così varia e ricca dal punto culturale può suscitare l’interesse dei grandi investitori?

«Questa è la grande sfida che ci attende nell’immediato: proseguire il percorso innescato da “Matera 2019” per fondare un processo più ampio di valorizzazione territoriale che attragga investitori privati, anche internazionali. La Basilicata non può perdere queste opportunità perché questo è un momento cruciale; ora va fatto questo passo. È fondamentale pensare al territorio e alla sua valorizzazione, senza dimenticare gli aspetti della conservazione, perché non c’è valorizzazione senza tutela».

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