BARI - Ex-diplomatico, ex-militare, scrittore e giornalista, Vittorio Dan Segre è un lucidissimo analista e un fine letterato. Classe 1923, ha contribuito alla nascita dello Stato di Israele (ricoprendo anche incarichi molto delicati di politica estera) e ha insegnato Relazioni internazionali nelle Università più prestigiose (da quella di Oxford, al MIT di Boston, passando per la Bocconi). Nel 1997, a Lugano, ha creato, presso l'Università della Svizzera italiana, l'Istituto di studi mediterranei.
Di recente, la Utet ha ripubblicato «Storia di un Ebreo fortunato», in cui racconta buona parte della sua vita, inclusa la sua esperienza, in Puglia, nei ranghi della Legione ebraica dell'esercito inglese. Si trattava di un ramo operativo, parallelo a quello in cui operò Hannah Senesh.
«All'epoca c'erano due gruppi con l'esercito britannico - spiega il professor Vittorio Dan Segre - Quello cui io appartenevo aveva lo scopo di saltare (nel senso di saltare da un aereo, paracadutarsi; ndr) dietro le linee o di andarci con i battelli, per recuperare i prigionieri alleati. Erano decine di migliaia, perché c'erano anche i francesi, i polacchi, ed erano stati liberati dai campi di prigionia militare con l'8 settembre. Inoltre, lo scopo era di recuperare una cosa che mancava alla truppe britanniche, cioè i piloti».
«C'era poi un'altra unità di ebrei ma era distaccata e viveva senza contatti. Era - continua Dan Segre - un'unità creata dall'Agenzia ebraica e anche loro indossavano l'uniforme britannica. Lo scopo, però, era di aiutare gli ebrei ed eventualmente salvarli. Quindi "salvataggio ebraico"».
«Questa attività era stata ispirata da Enzo Sereni (catturato e morto in lager e marito di Ada, che poi organizzò le navi che, in Puglia, imbarcarono migliaia di ebrei e li portarono in Palestina; ndr). Sereni raggruppò uomini e donne, ebrei di Palestina, per fare questa operazione e tra loro c'era Hannah Senesh. Fui l'ultimo a vedere Enzo Sereni. Partì, in jeep, dalla sede della nostra unità, per quel malaugurato lancio. Venne lanciato su un campo di costruzioni del genio tedesco».
Non c'erano punti di contatto tra le due unità di ebrei?
«C'era un coordinamento militare tra i due gruppi. Anche se non erano nella stessa base. La mia era sulla strada per Gioia del Colle, mentre il gruppo dell'Agenzia si trovava a Bari città, nel Club dei Soldati Ebrei, in via Garruba».
In Puglia quanto si fermò?
«Circa quattro mesi, dalla fine del '43 ai primi mesi del '44».
Ed è sempre stato a Gioia del Colle?
«All'inizio fui a Bari, dove c'era un centro di intelligence che lavorava con le truppe di Tito e di Mihajlovic. Avevamo la divisa britannica, ma sulla spallina era scritto "Palestine". Ed eravamo vari reggimenti. Si arruolarono circa 33.000 uomini e donne che, per una comunità di meno di 150.000 persone, è un numero molto elevato».
Possiamo dire che l'unità della Senesh fu il primo «esperimento militare» di quello che, in seguito, sarebbe diventato lo Stato di Israele?
«Diciamo che fu il primo tentativo militare di assistenza agli ebrei nella gabbia nazista».
Sì ma, inviando dalla Palestina, propri militari che avevano il compito di salvare degli ebrei, la Comunità ebraica di Palestina - nei fatti - si comportò come uno Stato. Uno Stato invia le sue truppe a salvare i propri cittadini. Solo che, a quell'epoca, Israele non esisteva, lo Stato non esisteva.
«Sì è verissimo. Infatti, contrariamente a ciò che si dice e cioè che Israele è la cattiva coscienza dell'Europa per la shoah, in realtà la shoah tagliò tutte le radici del sionismo. Se Israele ha potuto vivere, fu perchè le strutture dello Stato erano già, in embrione, completamente sviluppate. Prima ancora che ci fosse uno Stato, c'era un'armata segreta, l'Haganah; c'era un'organizzazione degli operai; c'era un parlamento locale; c'erano le associazioni sportive; c'erano teatri e sistemi di educazione autonomi e c'era anche una pianificazione economica diretta dall'Agenzia ebraica. Quindi - continua Vittorio Dan Segre - gli elementi dello Stato hanno preceduto, per fortuna, la nascita dello Stato. E sono questi elementi pre-statali che sono purtroppo mancati ai palestinesi».
In che senso?
«La ragione per cui i palestinesi non hanno creato uno Stato (e potevano, perché dal '48 al '67 non erano sotto occupazione israeliana), dipende dal fatto che l'idea di Stato che volevano era basata sul recupero dell'onore attraverso la vendetta. Non si può costruire uno Stato così. La vendetta è una formidabile fonte di adrenalina, ma non è sufficiente a creare istituzioni. Il problema sussiste ancora oggi. Lo si vede nella spaccatura tra Hamas (ovvero il Movimento di Resistenza Islamico, un'organizzazione religiosa islamica palestinese a carattere paramilitare e politico; ndr), a Gaza, che vuole la distruzione di Israele ma non la costruzione di uno Stato Palestinese, perché lo Stato è la Umma, e Al Fatah (organizzazione nata in seno all'Olp e fondata, nel 1959, da Yaser Arafat; ndr) che, almeno teoricamente, vuole uno Stato democratico, laico, palestinese. Cosa che è invisa agli islamici».
Se lei ha ragione, per quale motivo è stato tanto osteggiato l'Hamas movimento politico inserito in un contesto democratico?
«I rappresentanti di Hamas sono stati eletti democraticamente - replica il professore - ma hanno subito stabilito il principio: un voto per una persona, una volta sola. E, mentre hanno creato la loro popolarità con una vasta rete che sostituiva l'impotenza di Arafat e dei suoi successori, oggi che sono arrivati al problema, hanno chiuso le organizzazioni assistenziali perché temono che possano essere un ostacolo».
Qualcuno dissentirebbe e direbbe che Hamas s'è soltanto trasformato. Ma torniamo indietro nel tempo, alla Seconda Guerra mondiale e alla «sua» Puglia.
«Non l'ho girata molto perché era soprattutto nella zona di Bari, Molfetta, che mi muovevo. Mi occupavo dell'accoglienza dei profughi che, dalla Jugoslavia, arrivavano sulle coste della Puglia. Ricordo che c'era un'infinita povertà e grande corruzione, ma c'era qualcosa che mi rattristava più d'ogni altra ed era il dolore della popolazione. Parlo dei contadini, gente povera. Soffrivano per una occupazione militare straniera che dovevano ringraziare. Questo fu per me un grande insegnamento. Credo che la storia dell'occupazione, della liberazione, sia tutta da rifare. Quando una sconfitta viene trasformata in vittoria, un'occupazione in liberazione, evidentemente ci sono poi dei problemi psicologici».
Perché la rattristava tanto?
«Perché vedevo delle espressioni di dignità che non vedevo nelle città. Non era un fatto politico, era un fatto personale. Non erano dei politicanti, non amavano il fascismo, ma avevano un senso di dignità e soffrivano per quell'occupazione e, quando trovavano qualcuno che parlava l'italiano, lo dicevano apertamente. Mi colpiva».
Lei arrivò a Bari poco dopo il bombardamento tedesco che scatenò l'esplosione di iprite?
«Sì. Trovai tutto distrutto, case colpite, strade disastrate, fili della luce e dei telefoni appesi dalle case. Era la guerra, la guerra vissuta dai civili, visto che lì non si combatteva più».
Ha mai incontrato il gruppo di Hanna Senesh?
«Sì - dice Vittorio Dan Segre - Lei operava assieme a Joel Palghi, poi presidente della Società Aeronautica Israeliana. Conobbi altri paracadutisti che poi si salvarono. Divenimmo amici».
Ma la Senesh era l'unica donna?
«Non ricordo se fu la sola. Ma fu l'unica lanciata e, soprattutto, catturata».
Marisa Ingrosso
ingrosso@gazzettamezzogiorno.it

Venerdì 02 Maggio 2008, 19:30
22 Febbraio 2025, 15:16