«Così furono compiuti il cielo, la terra e tutte le loro schiere. Avendo, dunque, Dio compiuto nel settimo giorno l’opera che aveva fatto, nel settimo giorno si riposò da ogni sua opera intrapresa e benedì il settimo giorno e lo rese sacro, perché in esso si era riposato da ogni sua opera che Dio, nel farla, aveva creato». (Genesi, 2, 1-4) Andate a controllare e ritroverete, insieme all’ansimante prosa della traduzione che nulla concede alle potenziali bellezze della lingua, la certificazione che anche Dio si riposò. O, meglio, che Dio, il quale non aveva certo bisogno di riposarsi, il riposo lo ha creato per l’uomo, conoscendolo fragile e bisognoso di requie nella fatica del lavoro quotidiano.
Quest’interpretazione ci dice, dunque, che Dio creatore sa già, desolatamente, che le creature cadranno in peccato e dovranno guadagnarsi il pane con il sudore della fronte e lo sa prima che Eva si lasci tentare, tant’è che predispone il turno festivo nella corvée a cui sa essere destinata la coppia mortale. Da nessuna parte la Bibbia parla di week-end, va da sé, ma il principio fu fatto salvo: gli uomini, lavoratori a tempo determinato o avventizi, impegnati nelle professioni libere, nel cottimo o nel lavoro interinale, statali o parastatali, commercianti o liberi professionisti, operai, contadini, e perfino gli studenti, arrivati a sei giorni di cartellino timbrato a vario titolo, dovranno riposare.
Dovranno, badate bene, non potranno. Per salvaguardare la salute del corpo, oltre che per scaldare lo spirito. Il settimo giorno non lavorativo non dipenderà dall’elargizione benevola del datore di lavoro o dalle conquiste sindacali, ma dalla volontà divina e, quindi, poche chiacchiere: la domenica si riposa, non si ozia. Almeno nel mondo cristiano.
Ma, con diverse intenzioni, anche altrove si è oziato con vigorosa convinzione e con indiscussa devozione. Per i Latini, come tutti sanno, la parola otium designava la cura dell’animo per mezzo delle lettere, delle arti, della speculazione filosofica, della contemplazione: il contrario di negotium. La modernità inventò il campionato di calcio che, prevalentemente giocato di domenica, ha implicato un’interpretazione astuta della Bibbia e molti compromessi lucrosi. Ma torniamo al riposo. Per volontà di Dio, dunque, gli Ebrei rispettano puntigliosamente il Sabato. La domenica fu giorno del signore, da Dominus latino, dopo la venuta di Cristo in terra, venuta problematica e salvifica come ancora testimonia e racconta il Natale.
Il termine ebraico Shabbat significa letteralmente cessare, cioè smettere: smettere le attività, non lavorare, non affaticarsi nel senso etimologico della condanna biblica. La domenica, più veniale imposizione del Cristianesimo, sancì, però, non gli ozi calcistici, bensì il dovere di rispettare il sacrificio della messa e, con ciò, l’implicita ammissione che a Dio si sarebbe dovuto dedicare il riposo e non solo pratiche, diciamo così, ludico sportive.
Si è discettato di concedere di spostare il giorno del riposo, della cessazione dalla fatica, dalla domenica ad altro giorno a piacere, secondo le convenienze moderne degli stati. Si trascura, dunque, l’agenda biblica e si lascia alle convenienze la designazione del giorno del riposo. Peccato. Amo le certezze del calendario su cui compaiono, segnati in rosso, i giorni di Dio suggeriti dalle vicende astronomiche affascinanti e divine, per l’appunto. Dio non paga il sabato suggerisce il nuovo Testamento, il sabato o la domenica riposa per far riposare noi, sue creature. Questo sta scritto. Ma, poi, Sabato, Domenica, Venerdì, che importa?
Alla nostra salute non importa del calendario. Tanto è vero che in molti paesi evoluti, ormai, hanno inventato il week-end, la fine della settimana in italiano e non il fine settimana (maschile che non esiste), forse per tener contenti tutti. E, in Italia, oltre all’adesione famelica a questa pratica calendariale, ci siamo specializzati in «ponti», un sistema efficacissimo per allungare il riposo a dismisura, oltre il solo settimo giorno, dato per scontato e buttato lì nel dimenticatoio.
Ma a me non toccate il sabato di qualsiasi dislocazione: quello poetico di cui ancora mi piace leggere e quella di oggi, nella geografia immane del villaggio globale e con frettolose donzelle che arrembano le metropoli provenienti da arruffate periferie, pur sempre, alla vigilia della domenica.
«Domenica è sempre domenica» cantava di sabato sera, in televisione, un signore, elegante e distinto, alle donzellette del borgo Italia. Donzellette che cominciavano a non venire più dalla campagna: avevano trovato casa in città e pagavano il televisore a rate lavorando sei giorni a settimana. Quelli stabiliti, non a casaccio. Quelle signore, a proposito di riposo dopo il lavoro, sono riuscite ad andare in pensione. Le donzellette di oggi ne dubitano sgomente. Ma, questa è un’altra storia. Ho ripreso una mia passata riflessione in occasione del Ferragosto. Buon ferragosto «fatto» ai miei lettori.