Leader studentesco del Movimento, sociologo, Guido Viale, 79 anni, racconta la sua versione dell’esperienza rivoluzionaria di Lotta Continua, formazione della sinistra extraparlamentare fondata nel 1969. A questo percorso ha dedicato il saggio «Niente da dimenticare. Verità e menzogne su Lotta Continua» (Interno 4): il volume sarà presentato oggi alle 11 nella Facoltà di Lettere di Bari con Paolo Ponzio e Pierpaolo Martino (Uniba), Gianluigi Trevisi (Experimenta) e Antonio Guida. Nel pomeriggio (alle 17) ci sarà un incontro nella libreria Zaum, alle 19,30 ad Altamura, poi domani alle 17,30 a Matera.
Viale, come presenterebbe Lotta continua e la sua esperienza militante a un «millenial»?
«Prima del movimento studentesco, prima del 1968, la nostra vita era programmata dai genitori, abbastanza noiosa, nonostante le feste e i locali. La scelta di dare un senso alla nostra esistenza ci ha spinto a muoverci e a partecipare a questa rivolta. Per questo Lc è stata un momento molto radicale, non rivendicava singole trasformazioni. Il nostro stato d’animo era simile all’inquietudine che vivono attualmente i giovani di oggi, tra rischi ambientali e nubi sulle prospettive lavorative».
Il malessere a volte anestetizza le coscienze.
«Non si può lottare contro la crisi del nostro tempo solo con la paura. Ci vuole una radicale messa in discussione della società».
Che sinistra rappresentava Lc?
«Non ci siamo posti il problema. Il tema era la lotta e quello che la lotta ci procurava. Siamo cresciuti in un agire collettivo che ha trasformato le nostre esistenze, in comunione di lotta».
Il legame con gli anni settanta?
«Lc è stata coinvolta o si è sentita coinvolta dagli anni del tritolo, dal 1969 al 1974, nei quali ci sono state le stragi in collusione con i servizi segreti. Lottavamo in fabbrica, nelle università e nelle carceri, per trasformare il modo in cui si poteva vivere».
In cosa differiva Lc dall’Autonomia?
«L’Autonomia era legata ai suoi schemi intellettuali. Tutti i gruppi erano nati da scissioni del Pci o intorno ad un gruppo dirigente che aveva elaborato una sua teoria, come Potere operaio o il manifesto. Noi non avevamo un gruppo dirigente o una scissione pregressa, siamo nati intorno alla lotta per valorizzare la vita e le esperienze».
Avete dato vita a un quotidiano, inizialmente con direttore responsabile Giampiero Mughini (che ha dichiarato di firmare la pubblicazione ma non leggerla, fino alle dimissioni del 1971).
«Vendeva quasi 10mila copie nel periodo di maggior successo, con la distribuzione militante. Una tiratura che si sognano molti quotidiani: avevamo cinque o sei persone in redazione, che facevano i giornalisti e insieme i tipografi. E’ stato scuola del giornalismo ma aveva anche carenze…».
C’erano rubriche anche sull’intimismo e sugli amori…
«Pubblicavamo pagine sulla condizione degli operai. Ma anche su problemi intimi, soprattutto con il 1977, ospitando le rivendicazioni di quella parte del movimento che non era armato».
Il ruolo del capo politico, Adriano Sofri?
«È stato fondamentale dall’inizio fino agli ultimi giorni. Persona di cultura e intelligenza straordinaria, veniva dalla Normale di Pisa, brillava negli studi. Aveva un grande fascino, conquistava le persone e le coinvolgeva, interessandosi visceralmente alle loro vicende».
Piazza Fontana è stata una cesura cruciale?
«Avremmo voluto fare altro, ma abbiamo dovuto impegnarci per discolpare Valpreda, fare luce sulla fine di Pinelli, che veniva presentato come un complice di Valpreda. Siamo stati i primi e gli unici su questa tesi, pubblicando un foglio quotidiano, “Processo Valpreda”, smascherando le trame e i depistaggi».
La campagna a Milano contro il commissario Luigi Calabresi è stata di inaudita ferocia.
«Il tono che abbiamo usato in quella mobilitazione è stato deprecabile. Lo abbiamo riconosciuto. Non abbiamo pensato a come l’avrebbero visto i figli e la moglie di Calabresi. La stessa cosa si è verificata per la moglie e le figlie di Pinelli. Nel merito della campagna contro Calabresi pensiamo di aver avuto ragione: il modo in cui si è nascosta la vicenda Pinelli è stato inaccettabile. Solo nel 2005 dagli archivi degli Affari riservati sono emersi documenti che hanno dimostrato come, durante l'interrogatorio di Pinelli, in quella stanza della Questura, oltre ai funzionari di polizia, c'erano almeno 13 funzionari dell’ufficio di Federico Umberto D’Amato. Sia la strage di Piazza Fontana che il tentativo di attribuirla ad anarchici e sinistre era una operazione mossa da questo servizio segreto».
Inaspettatamente tra i difensori nella vicenda giudiziaria di Sofri, legata alla morte di Calabresi, c’è stato anche il leader del Msi Beppe Niccolai.
«Niccolai era un nostro avversario, contro cui avevamo organizzato una manifestazione a Pisa, nella quale fu ucciso l’anarchico Serantini. È stato una persona onesta, andava a trovare in carcere Sofri. Dalla lettura degli atti, presente nel mio libro, emerge come è stato condotto il processo Calabresi. Ci sono nomi e cognomi e io non ho subito alcuna denuncia».
La diaspora lottacontinuista, tra Psi, Berlusconi, «Il Foglio» e sinistre movimentiste…
«Alcuni andarono con i socialisti e poi con Berlusconi, altri dopo verso Matteo Renzi. Ora c’è una divisione tra i sostenitori pro Ucraina e quelli contro la consegna delle armi a Zelensky. Queste divisioni profonde non hanno intaccato le ragioni personali che ci hanno tenuti uniti».
Il rapporto di Lc con la cultura americana?
«Nella formazione di molti di noi, più che i testi leninisti, hanno avuto un peso le campagne contro la guerra in Vietnam, la musica, tutto in una chiave anti-imperialista, con empatia verso il Free Speech Movement e le Pantere nere».
L’errore che non avreste voluto compiere?
«I due principali sono stati la nostra prolungata cecità sul femminismo, nonostante non fossimo particolarmente maschilisti e il non aver compreso la questione ambientale. Eppure tra noi ha militato Alex Langer che, solo dopo Lc, è emerso come ispiratore dell’ecologia italiana».