Lunedì 22 Dicembre 2025 | 09:35

Tutti pazzi per Colette, il genio sensuale della scrittura

Tutti pazzi per Colette, il genio sensuale della scrittura

 
Teresa Lussone

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Teresa Lussone

Tutti pazzi per Colette, il genio sensuale della scrittura

Un genio che continua a sorprenderci, anche grazie alle numerose iniziative incoraggiate dall’ingresso delle sue opere nel dominio pubblico

Lunedì 22 Dicembre 2025, 07:24

Il 2025 è stato l’anno di Colette (1873-1954). Come ai tempi in cui era una vedette acclamata, oggi il suo sguardo delicatamente sensuale riappare qua e là per le strade di Parigi, protagonista dei manifesti della mostra che le è dedicata alla Biblioteca nazionale di Francia, Les mondes de Colette. E di mondi Colette ne ha abitati diversi: scrittrice, giornalista, sceneggiatrice, imprenditrice della bellezza. «Un genio», diceva Montherlant. Un genio che continua a sorprenderci, anche grazie alle numerose iniziative incoraggiate dall’ingresso delle sue opere nel dominio pubblico. 

Sono infatti trascorsi settant’anni dalla sua morte e Colette è tornata al centro della scena editoriale italiana. Adelphi ha pubblicato La gatta nella traduzione di Maurizia Balmelli. Un romanzo dalla «perfezione classica», secondo Edmond Jaloux; «folgorante» per Julia Kristeva. Per molti è il suo romanzo più riuscito. L’Orma ha inaugurato il Chantier Colette, progetto curato da Daria Galateria, Daniela Brogi e Lorenzo Flabbi, che ha già restituito ai lettori diversi testi, tra cui Gigi nella traduzione di Ornella Tajani: un vero e proprio «incantesimo» destinato a diventare leggendario, come spiega Daria Galateria. A questi si sono aggiunti Il tutuniè per Marsilio, a cura di Gabriella Bosco, e la riproposta dei Meridiani Mondadori curati da Maria Teresa Giaveri, affiancati da alcune edizioni negli Oscar. 

Questa rassegna sommaria basta a rendere l’idea del rifiorire editoriale dedicato a una delle maggiori voci del Novecento, o, per dirla con il suo contemporaneo Aragon, al più grande «scrittore» francese del tempo. Siamo in un’epoca in cui il miglior complimento che si possa fare a una donna è considerarla al pari degli uomini, come se fosse una di loro. Colette, per Aragon, non è una delle tante femme auteur che scrivono per altre donne, ma appartiene a un establishment letterario interamente maschile: ciò che oggi ci appare inaccettabile dice molto del suo tempo, e forse ancora di più della sua eccezionalità.

Questo slittamento tra maschile e femminile comincia dalla scelta dello pseudonimo: sembra un nome femminile, ma è il cognome del padre, scrittore mancato. I testi d’esordio, la serie di Claudine, escono con la firma del marito Willy, giornalista spregiudicato che si limita ad aggiungere qualche scena salace. Il divorzio le dà finalmente l’indipendenza, anche se al prezzo del music hall, «il mestiere di chi non ha nessuno», come racconta nella Vagabonda (1911). Le tournée non le impediscono di scrivere e a poco a poco arriva il successo: nel 1920, nello stesso anno di Proust, è nominata cavaliere della Legion d’onore, quindi entra nell’Académie Goncourt. Alla morte, le vengono tributati i funerali di Stato.

Nei suoi romanzi si rintracciano temi ricorrenti: la nostalgia dell’infanzia o dell’adolescenza, il rapporto con il mondo vegetale e animale, la rappresentazione dei rapporti di coppia. La scrittrice osserva le donne in tutte le fasi della vita, ribalta qualsiasi stereotipo di genere nelle relazioni e rappresenta l’affermazione della libertà femminile. La sua fortuna si fonda, dunque, su un paradosso: come si concilia il riconoscimento istituzionale senza pari nella storia letteraria francese con il rifiuto delle interdizioni sociali e religiose messo in scena nei suoi testi? Di certo, la romanziera non ha mai fatto l’apologia della trasgressione e come diceva Brasillach, non bisogna prendere Colette «per un filosofo». Quando la si definiva un’intellettuale, lei stessa si schermiva dicendo di essere «solo» una scrittrice. Ma è questo che spiega il mistero: quella grazia della scrittura rende accettabile persino lo scandalo. «Quanto mi piace come scrive Colette!», diceva Gide, che amava quella lingua apparentemente discreta, quella finta noncuranza creata ad arte. L’autrice crea un proprio alfabeto, un suo lessico familiare e questo il lettore più curioso potrà vederlo bene nel Tutuniè, a cura di Gabriella Bosco, pubblicato con il testo originale a fronte.

Il titolo è emblematico in tal senso: come spiega la curatrice, il termine è un neologismo, una «metafora affettiva» che in francese evoca una cagnolina, ma che viene usato dalla protagonista Alice e dalle sue sorelle per indicare il vecchio divano di cuoio su cui le bambine un tempo si scambiano confidenze. Quel divano allude al tentativo di Alice di recuperare il proprio tempo perduto dopo la morte del marito, su cui pesa l’ombra del suicidio. Ancora una volta, Colette affida alle figure femminili una straordinaria determinazione e una grande capacità di resistenza, mentre gli uomini restano sullo sfondo, fragili, inadeguati. Eppure, secondo Queneau, nelle sue opere non c’è alcuna lezione da trarre: Colette non vuole né convincere né dare consigli, ma «si accontenta di dire e di dire bene».

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