«E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore?» si chiede Quasimodo interrogandosi sulla possibilità reale della poesia in tempo di guerra. Eppure si possono scrivere versi anche sotto le bombe nemiche. Sono versi di poeti palestinesi quelli riportati nel volume Il loro grido è la mia voce - Poesie da Gaza (Fazi editore). I curatori di questo prezioso volume sono
tre ragazzi giovanissimi, Antonio Bocchinfuso, Mario Soldarini e Leonardo Tosti e la prefazione è a cura di Ilan Pappè, storico ebreo anti-sionista che sottolinea «Scrivere poesia durante un genocidio dimostra ancora una volta il ruolo cruciale che la poesia svolge nella resistenza e nella resilienza palestinesi».
Il libro si chiude con il bellissimo Discorso alla Oxford Union della scrittrice Susan Abulhawa. Il testo raccoglie trenta poesie di cui ventisei scritte da Gaza dopo l’8 ottobre, nell’ultimo anno e mezzo di genocidio sistematico della popolazione. Sono versi scritti in condizioni precarie, magari in una tenda piazzata in un campo profughi bombardato a ripetizione. La cosa che più sorprende è che chi scrive non parla mai del nemico; non ci sono parole d’odio in questi versi perché nella poesia l’odio non può trovare accoglienza.
La poesia e la letteratura palestinesi rappresentano da oltre cento anni un atto di resistenza e di denuncia che contrasta le menzogne della hasbara israeliana e dei media che la supportano.
Scrive Pappè: «L’aspetto più inquietante di ciò che accade dal 7 ottobre 2023 è il silenzio e l’indifferenza dell’Europa». Refaat Alareer è un poeta molto interessante perché è stato ucciso il 6 dicembre 2023 dai proiettili israeliani quindi una figura di riferimento importante dell’olocausto gazawi; prima di essere ucciso, consapevole di andare incontro alla morte, ha composto If I must die, ripostata in rete poco prima della sua morte: “Se devo morire/ tu devi vivere/ per raccontare la mia storia/ per vendere le mie cose/comprare un pezzo di stoffa/ e qualche filo (…)/per farne un aquilone”. Sono versi di una profondità inquietante, scritti nella consapevolezza dell’impotenza dinanzi alla immane tragedia. Perché tutte le guerre rappresentano una tragedia collettiva contro cui la poesia può “solo” rivendicare il suo ruolo di catarsi dalla disumanizzazione.
Recuperare la dimensione umana della propria esistenza sembra essere la priorità di questi poeti fragili ma forti la cui forza consiste proprio nella consapevolezza del proprio destino e nella trasmissione di un testamento “spirituale” a chi resta.
E ancora Hend Joudah, nata in un campo profughi a Gaza, autrice di poesie, canzoni, racconti e diverse sceneggiature per documentari “Cosa significa essere al sicuro in tempo di guerra?
Significa vergognarsi/ del tuo sorriso/ del tuo calore/ dei tuoi vestiti puliti, delle tue ore di noia/ del tuo sbadiglio/ della tua tazza di caffè/ del tuo sonno tranquillo/ dei tuoi cari ancora vivi, della tua sazietà/ dell’acqua disponibile, dell’acqua pulita/ della possibilità di fare una doccia/ e del caso che ti ha lasciato ancora in vita”. Qui l’obiettivo si sposta sulla condizione degli “esclusi” dalla guerra, sui privilegiati che hanno potuto fuggirne - come è capitato a lei che ha ottenuto il nullaosta per lasciare la striscia di Gaza come accompagnatrice di sua zia con problemi cardiaci: essi portano con sé il senso di colpa per il semplice fatto di vivere, respirare senza le bombe e mentre la loro vita scorre placida quella dei loro simili scorre nella inesorabilità della morte.
L’umanità di questi giovani poeti resta intatta anche se circondati da una carneficina; vivono sotto le bombe di Israele da quando sono nati, sfiorando la morte ogni giorno e ogni giorno vedendo morire familiari, parenti, amici. “Ho diciannove anni e ho vissuto molte morti (…) Quando la vita si mostrerà a me?” scrive il giovanissimo Haidar al-Ghazali.
Purtroppo la vita gli si è mostrata nel suo volto peggiore, un volto imbrattato di sangue, pallido, smunto per la fame, impotente a riscrivere la storia di un popolo da sempre perseguitato ma che non ha mai perso la speranza, il desiderio di far sentire la propria voce e di farla risuonare tra il frastuono delle bombe, senza alcuna certezza di sopravvivenza ma determinato a lasciare traccia del proprio passaggio sulla terra.