Prima di parlare del diario pittorico di Emilia Ruggiero, bisognerebbe avanzare qualche riflessione sul rapporto tra centro e periferia – nemesi onnipresente nella storia dell’arte italiana. Arte da sempre determinata da quell’autonomia enorme che le periferie esprimono. Nonostante il margine operativo o forse proprio nel cortocircuito che ne deriva, si sono sollevate inalienabili ricerche. Il peso ricattatorio del centro, in passato ha esercitato il suo carisma su personaggi come i pittori Ercole Pignatelli, Tonino Caputo o Fernando De Filippi, nati in quel Salento rimasto immutato anche dopo la guerra, cresciuti in quei borghi mai sfiorati dai bombardamenti che costrinsero all’editing architettonico ben altre geografie, dal quale partirono in cerca di fortuna. Eppure, nell’ottica di un rilievo politico e culturale della vita di ogni artista, su una strada di sostanza civile, il monachesimo dei laboratori d’arte figli di quelle che un tempo erano le botteghe, i magazzini, gli antri pronti ad accogliere certe vocazioni, in questo sud del mondo è una restanza che rende possibile una biodiversità istintiva a dispetto di tanta dittatura culturale, fertile germinazione propria delle province.
Per raccontare lo studio della pittrice Emilia Ruggiero, bisogna zoomare sul budello della caleidoscopica Puglia, sul Salento-incubatore distante dai pedaggi, su un rione popolare di Lecce, San Pio, sino ad ingrandire la porta di “Deep-osito” ovvero quello spazio vissuto due volte e riconvertito da vecchio deposito ad atelier tutto per sé, ma aperto a tutti quelli che la cercano, in Via Toma. Sul cavalletto c’è una tela, su un piattino di ceramica i colori che dicono l’incarnato di un volto di donna che guarda dritto negli occhi l’osservatore di turno. Tocca a me. La pittrice Emilia Ruggiero (classe ’79, nata a Mesagne e trasferitasi a Lecce dove ha scelto di restare a vivere dopo gli studi) mi accoglie con un volto cinquecentesco, come appena sbozzato da una di quelle fiabe che Basile trascrisse nel mirabolante Lu cuntu de li cunti, un’autentica bellezza, acqua e sapone, l’eleganza di una semplice maglietta a righe, pantaloni e ballerine ai piccoli piedi: è lei, si moltiplica negli autoritratti che lasciano il passo a un femminile plurale costruito con pazienza e cura, testimoniato dalle tele che formano un’altra parete, vivace come una stagione, abitata da tutte le muse confluite nel progetto Woman. Acrilici su tele le cui reali dimensioni si rivelano davvero solo quando sono offerte al colpo d’occhio tutte insieme, tasselli di un mosaico mai disunito dalla motivazione profonda del racconto breve distillato dentro un’immagine che si apre nel colore con tutta la complessità del reale di ogni pennellata.
Emilia Ruggiero si oppone con tutte le sue forze al risentimento atavico, indicibile, che per secoli si è abbattuto contro le donne, mentre si muove nel laboratorio che ha così lungamente desiderato, continua a evocare quei secoli oscuri durante i quali non era ammissibile che una donna dipingesse e fosse considerata una pittrice, la maggior parte fra quelle che riuscivano a entrare nello studio di un’artista cercavano di imparare il più possibile mentre si garantivano un lasciapassare invisibile posando e lasciandosi credere delle comuni modelle, artiste assenti dalle antologie che inanellano principalmente capolavori firmati da uomini. C’è una frase che Emilia ripete: «La maniera non serve, è inutile». In queste poche parole si può rintracciare la lunga fedeltà di un’artista al genere di racconto pittorico che agisce come terreno di sperimentazione per destrutturare le forme del genere-ritratto e le sue prospettive di senso arrivando a influenzare la conformazione delle sue opere più compiute.
Per tentare di individuare le invarianti e l’organizzazione tematica di queste prose o biografie dipinte, per cogliere quello che la Ruggiero ribadisce nel titolo di un suo autoritratto del 2012, Solu alla morti non c’è rimediu, si può considerare che la scelta dei soggetti testimonia la necessità di lasciar emergere il punto di vista, gli stati d’eccezione femminili che rifiutano la mimesi poiché abitano vite che a un certo punto hanno sollevato lo sguardo.