In queste ultime battute di storia del cinema, finché il cinema avrà una storia, può venire in mente anche di interrogarla per esigenze immediate, che sono poi di lungo corso. E ricevere conforto e indicazioni etiche oltre che civili su tante cose. Una volta si chiamavano principi, gli stessi che attraverso un certo cinema resistente potrebbero valere sugli imminenti referendum in materia di lavoro e di cittadinanza. Ecco, non c’è molto da cercare in questa storia agli sgoccioli di un cinema sempre più preda di numeri e consensi massificati. Quanti autori, ragionevolmente di parte e non senz’arte né parte, hanno insomma dedicato ai macrotemi del lavoro connesso ai diritti, compreso quello di vantare una cittadinanza? Due, che automaticamente fanno tre, poiché uno è l’inglese Ken Loach, classe 1936, novant’anni nel 2026, l’altro è un duo, i fratelli belgi Jean-Pierre e Luc e Dardenne, settantaquattro anni il primo, settantuno il secondo.
Gli snob che ai festival ci vanno per dire di aver visto lì i film e non nelle normali sale dicono da tempo che Loach e i Dardenne sono registi da festival, perché forse è troppo complicato con i loro film sfangarsela inseguendo discorsi fumosi su qualche indecenza estetizzante dell’ultima ora, senza capo né coda. Già dalle rispettive età invece il vecchio Ken e i neo-vecchietti Jean-Pierre e Luc hanno dedicato per intero le loro filmografie, quindi le loro vite dietro la macchina da presa con obiettivi gravi, precisi e concordanti, concentrandosi sui cittadini di serie B in una società verticale e a dismisura di umanità, stretti in una morsa di bisogni contro abusi legalizzati, istituzionalizzati e digitalizzati. Figurarsi quindi la cittadinanza stessa si trasforma in un iter burocratico ai limiti del calvario o della parabola kafkiana. Stabilire quali siano i titoli chiave è un po’ fuorviante; poiché tutti, relazionandosi a vicenda, c’entrano e centrano il bersaglio: sia Loach da solo che i fratelli Dardenne fisiologicamente in tandem restituiscono sempre un quadro composito di combinazioni interne, le stesse che infastidiscono chi cerca svago intellettuale sul grande o piccolo schermo (perché “piccolo” come orizzonte di lotta e critica dell’esistente ormai è anche quello “grande”).
In questo quadro, macinando contraddizioni dentro un impianto di convinzioni di lunga data, dove la “vecchiaia” è sintomo di perseveranza, a interagire con vicende disperate e più reali della realtà sono ad esempio Riff Raff, Piovono pietre, My Name is Joe, Sorry, We Missed You o The Old Oak sul versante Loach; e su quello Dardenne La promessa, Rosetta, Due giorni, una notte, La ragazza senza nome o Tori e Lokita. Eppure in ogni tassello di questo doppio puzzle che fa onore e restituisce dignità a chi ha fatto del cinema una forma di attivismo ulteriore, i personaggi possono essere addirittura vittime di un sistema lavorativo o di una minaccia incombente di perdita del lavoro; ma nel contempo, se al cospetto di stranieri o extracomunitari di prima, seconda o terza generazione, ergersi in chiave tragica e crudele ad arbitri della pari disparità di cittadinanza altrui.
Sarebbe bello pensare che molti altri cineasti andrebbero aggiunti a questa lista ridotta all’osso; ma non ce ne sono di altrettanto coerenti e insistenti, almeno se si cerca chi ce l’ha davvero messa tutta, l’opera filmografica, per ripetere solo le cose importanti, mediante un gioco complesso di variazioni e connessioni. In tanti di film che hanno preso di petto le questioni della cittadinanza e dei diritti sul lavoro ne hanno fatti, però una tantum. Ben diverso, concreto e solido diventa il discorso quando si sceglie piuttosto di costruire un percorso compatto dove ogni esemplare si aggiunge come una nuova vertenza all’altro, ribadendo uno stile invisibile e maniacale nella restituzione trasparente dei fatti: uno stile cioè riassorbito dalle medesime istanze di contestazione, dall’analisi dei fenomeni e dei casi raccontati. Non affascina la rappresentazione non edulcorata del mestiere stesso di vivere colto in chi avverte sulla propria pelle i contraccolpi di un establishment elitario e classista. Prendere o lasciare.