Era un pomeriggio di novembre, uggioso e guardavo le nuvole. Suona il telefono: «Michele che stai facendo». Rispondo che sto preparando un caffè. E la voce: «perché non vieni a casa mia e te lo bevi con noi?» E aggiunge: «Siamo in tre, con te quattro: meno siamo meglio stiamo» mi disse, sornione, Renzo Arbore.
Era una delle nostre riunioni disorganizzate, ma produttive, perché improvvisate e meticolosamente confusionarie che punteggiano da sempre la nostra amicizia e la beata sorte di poter lavorare insieme. «Meno siamo meglio stiamo» insistette e insisterà Arbore con un programma tv con questo titolo, anni più tardi e, quella volta, lo dirà sogghignando in quel generico pugliese che armonizza, come lui ama fare, Foggiano e Barese, con esiti buffi.
Vado a casa di Arbore. Mi apre la porta Lino Banfi e avverte: «Sto facendo una frittata». Sostituii il caffè con la frittata e raggiunsi Ugo Porcelli, grande autore radiotelevisivo e produttore di Alto gradimento. Fu così che cominciammo a parlare della nuova impresa. Come molti ricorderanno (ebbe ascolti altissimi) si trattava di allestire una parodia del processo giuridico a carico della più famosa trasmissione della Rai da sempre: il Festival di Sanremo.
Quali i capi di imputazione? La Guida di Sanremo riporta un dato invadente: «dal ‘51 è sede del Festival della Canzone italiana». Ricordiamo quel gioco che entrò in punta di piedi, poi di prepotenza, nella vita dell’Italia del dopoguerra che si rimetteva a cantare. Cominciò con quell’idea che fu e resta dominante nella gara musicale: depositare nelle canzoni il senso percepito come vero dello stato del Paese con una tempestività che nemmeno Governo e Parlamento, gli intellettuali, la stampa, la Chiesa, il Censis possono vantare. Il Festival ha il ruolo che negli USA ha il discorso del Presidente “sullo stato dell’Unione”. Al sociologo duole dover ammettere di considerare la pletorica festa paesana, più eloquente di un’indagine demoscopica.
Noi facemmo la parodia del processo. Presidente Renzo Arbore, Avvocato dell’accusa Michele Mirabella con due assistenti: Avvocati Smith e Wesson. Renzo lo definì Studio di grosso calibro. Avvocato della difesa Lino Banfi inerme con cognome variabile e un bidello come assistente. Teatro di varietà e commedia leggera fatta di parodie e prestiti dell’operetta. Stiamo parlando di quel programma televisivo che realizzammo nella prima serata di Rai 1 nel gennaio 1990: Il caso Sanremo. Era la risposta orgogliosa e onesta che Renzo suggeriva di dare ai grigi postulatori dello share, ai contabili arcigni e noiosi dell’ascolto a tutti i costi, proponendo una televisione di stile alto, ma popolare, elegante, intelligente, ridanciana con gusto saggio e comica con classe. Il successo indiscusso del programma è stato già registrato e nessuno potrà più discuterlo. E non sappiamo dire, Renzo, Lino ed io e tutti gli altri amici, quanti spettatori siano stati davvero. Di sicuro, noi, siamo stati bene. Tutti. Un signore dello spettacolo, signore estroso, duttile, spiritoso, pieno di talento teatrale e colto, ha fatto riflettere su questioni impegnative di carattere sociologico: un fenomeno, Renzo!
E, in questo caso, la parola fenomeno è appropriata anche nell’accezione famigliare ed elogiativa che rinvia al compiacimento per la performance che, appunto, altro non è che la manifestazione di una realtà indiscutibile.
Non si contano gli elogi, meritati. Abbiamo restituito a tutti, ma segnatamente agli smemorati, una prova inoppugnabile che si può, ebbene, sì, si può fare una televisione intelligente e leggera, utile e divertente con quel mestiere dello spettacolo che meglio, in Italia, ha espresso glorie e storici successi: l’improvvisazione teatrale. E l’improvvisazione non vuol dire annaspare nell’impreparazione, vuol dire arte, intuito, sagacia, cultura, capacità di agire su lingue e linguaggi per architettare una moderna commedia dell’arte. E ci vuole mestiere. Tutto all’insegna luminosa del buon gusto. Parlo principalmente di questo aspetto nella radio e nella televisione di Arbore, perché se di tutto dovessi parlare, “l’aringa” sarebbe troppo lunga. (Cfr. Aspettando Sanremo 1990)
È la televisione dell’intelligenza che mette alla prova sé stessa e si avvicina al pubblico con eleganza e garbo. E l’unica distanza che crea è quella della professionalità e del talento. La ribalta è tutta lì. Fine dell’“aringa”. E, qui, Renzo direbbe: «Tonno subito».