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Luci e ombre dell’eterno “meltin pop”

 
dorella cianci

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Luci e ombre dell’eterno “meltin pop”

Che cos’è l’America dunque? È difficile da definire, perché gli elementi pop si mescolano alla letteratura, all’attualità e alla politica

Lunedì 28 Ottobre 2024, 08:00

Charlie Brown, come ricorderanno in tanti, disse, con arguzia, This is America e, in quegli episodi andati in onda in una miniserie televisiva d’animazione, che descriveva gli avvenimenti della storia degli Stati Uniti d’America usando i personaggi della striscia a fumetti Peanuts di Schulz, si tentava di comprendere gli USA (dalla Costituzione fino alla sua musica). La miniserie andò in onda sulla CBS dell’88.

Che cos’è l’America dunque? È difficile da definire, perché gli elementi pop si mescolano alla letteratura, all’attualità e alla politica. Non ci stupisce, infatti, quanto emerso nelle più recenti ricerche dell’Università di Harvard, dove – coi sondaggi alla mano – gli addetti ai lavori hanno notato come importanti personaggi dello spettacolo stiano influenzando la campagna delle Presidenziali del 2024, basti pensare al fenomeno Taylor Swift. E non c’è molto da stupirsi: Frank Sinatra fece lo stesso per Roosevelt, per John F. Kennedy e per Ronald Reagan. L’America… Appunto!

Dal rock degli inizi alla Pastorale americana di Roth, dai cowboy (seduti sempre sul cavallo della ragione) all’accoglienza data ai circa novantamila rifugiati ebrei, che si recarono, per la salvezza, negli Usa fra il ’38 e il ’39. Contraddizioni: terra promessa dell’accoglienza, sogno americano di generazioni, ma anche paure seminate, un po’ a caso, dal maccartismo fino alle recentissime frasi di Trump contro gli immigrati. È anche questo l’America, accanto alla definizione del filosofo statunitense Michael Waltzer, secondo cui «è un grande insieme democratico di nazioni con un’inquieta coscienza morale e intellettuale».
Quel “grande insieme”, misto di pop, democrazia, squilibri sociali, profonde contraddizioni di un’eterna
altalena di pace, spesso ricercata con la guerra, e derive del pensiero, come il raccapricciante
suprematismo bianco: This is America! «Con queste elezioni, la nostra nazione ha una preziosa e fugace opportunità di superare l’amarezza, il cinismo e le battaglie divisive del passato», ha detto Kamala Harris tra gli applausi dei sostenitori.

Certo: l’America è anche l’American dream di alcune generazioni. Nel 2001, Umberto Eco, sull’Unità del 10 Novembre, s’ interrogava sul “sogno americano”, chiedendosi come era potuto accadere che questo
simbolo, anche abbastanza ambiguo, ovvero questa civiltà, spesso spudoratamente contraddittoria, avesse potuto affascinare una generazione intellettuale cresciuta nel periodo fascista, quando l’educazione patriarcale, in Europa, oltre che la propaganda di massa, celebrava soltanto i fasti della pseudo-romanità.
Sembrava non esserci spazio per quel che proveniva da Oltreoceano! E invece ce n’era. Come era potuto accadere, si chiedeva Eco, che al di sotto dei modelli ufficiali, i giovani, negli anni Trenta e Quaranta, si creassero un mito tutto loro? È accaduto. Nessuno, allora, avrebbe mai potuto immaginare né i fatti di Capitol Hill, né il tema razziale nelle Presidenziali attuali. L’America, in quel momento, era racchiusa negli scatti del New Deal.

Cesare Pavese, in un articolo degli anni ’50, aveva precisato: «Per molta gente l’incontro con Caldwell,
Steinbeck, Saroyan, e perfino col vecchio Lewis, aveva aperto il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto, nella cultura del mondo, finisse coi fasci... A questo punto la cultura americana divenne per noi qualcosa di molto serio, divenne una sorta di grande laboratorio, dove con altra libertà e altri mezzi si perseguiva lo stesso compito di creare un gusto, uno stile, un mondo moderno che, forse con minore immediatezza ma con altrettanta caparbia volontà, i migliori tra noi perseguivano. Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l’America non era un altro Paese, un nuovo inizio della storia, ma il gigantesco teatro dove, con maggiore franchezza che altrove, veniva recitato il dramma di tutti. La cultura americana ci permise, in quegli anni, di veder svolgersi, come su uno schermo gigante, il nostro stesso dramma...».
Aggiunse poi: «Quella cultura ci apparve insomma un luogo ideale di lavoro e di ricerca, e non soltanto la Babele di clamorosa efficienza, di crudele ottimismo al neon, che assordava e abbacinava gli ingenui […]».

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