Ci sono storie che si «mangiano» la Storia, occultando quei simboli che invece meriterebbero di rimanere in primo piano. Niente magie, misteri o esoterismi. Solo la volontà imperiale unita alla capacità di guardare oltre lo spirito dei tempi. Non ci sono zone d’ombra nella lettura che offre dei castelli federiciani il medievista barlettano Victor Rivera Magos, presidente dell’Associazione del Centro Studi Normanno-Svevi. La sua è una ricostruzione rigorosa che attraversa criticamente quello che si potrebbe definire «il senso» di Federico II per il castello, ingaggiando così battaglia contro le suggestioni di tanta pubblicistica contemporanea. Una crociata per i castelli. E contro i «castelli in aria».
Professor Rivera Magos, quando si parla di castelli c’è un «prima» e un «dopo» Federico II. Qual è la linea di faglia?
«Federico II è erede della tradizione normanna che leggeva nei castelli una struttura di controllo e difesa del demanio regio. Magari anche con funzioni fiscali. Tutto qui. Torri, mura e niente di più».
Con Federico invece?
«Il castello diventa un’opera d’arte. La sua grande innovazione è questa: fare dell’edificio uno spazio simbolico. Sono strutture monumentali, molto belle, perché dovevano rappresentare l’imperatore in senso quasi fisico. Pensiamo al Castello di Bari: i baresi non lo volevano e lo distrussero due volte. Non a caso furono puniti proprio perché non era solo un insieme di pietre ma rappresentava qualcosa di più».
Altri esempi?
«Penso a Lucera, Gravina, Catania ma soprattutto a Castel del Monte, visibile da chi proveniva dall’Irpinia ma anche dal mare».
Ecco, assecondiamo la prospettiva. Chi si avvicinava cosa vedeva?
«Riconosceva la presenza del sovrano sul territorio. Attraverso la bellezza, della struttura come dei manufatti, si segnalava l’impronta dell’imperatore».
Restiamo su Castel del Monte. Negli anni si sono affastellate letture esoteriche, magiche, astronomiche di ogni genere. C’è qualcosa di fondato?
«Guardi, era un castello a tutti gli effetti come testimoniano gli studi di Raffaele Licinio, Massimiliano Ambruoso e Franco Magistrale. Non c’è niente di oscuro o di ignoto. Nei documenti era definito semplicemente castrum e sappiamo che era uno dei pochi voluti da Federico perché quella, al tempo, era una strategica zona di passaggio».
Tutto qui?
«C’è dell’altro naturalmente che si lega alla fortissima valenza simbolica del castello. È un castrum, come detto, ma un castrum unico al mondo».
A proposito di simboli, buttiamo nel calderone un elemento: il numero otto. La struttura ottagonale, le otto torri, anch’esse ottagonali come il cortile etc. Cosa dobbiamo dedurre?
«Come è stato fatto notare a più riprese l’otto è il numero che inquadra la struttura della corona imperiale germanica che è appunto ottagonale. Licinio lo ha spiegato chiaramente: è l’imposizione della corona imperiale su quella parte di mondo».
Insisto, c’è chi è andato molto oltre.
«Ma si tratta di affermazioni che si muovono su un terreno diverso da quello della Storia. Semmai sono “storie” costruite intorno al Castello, racconti fantastici che non hanno nulla a che fare con il Castello stesso. Purtroppo dobbiamo farci i conti perché sono suggestioni entrate nell’immaginario collettivo, rischiando di far danni. Rischiando, anzi, cito ancora Licinio, di
trasformare il sogno in un incubo».
La morale quindi qual è?
«La storia di Castel del Monte è una storia importante, fortissima dal punto di vista simbolico. Non schiacciamola sovrapponendo storie senza fondamento. Dico di più: quando gli Angiò presero possesso del Castello ne fecero una prigione dove furono rinchiusi i baroni Rufolo e della Marra accusati di tradimento. Ne avrebbero fatto quell’uso se la costruzione avesse avuto un’altra destinazione?»