«Chi non lotta ha già perso» è il titolo del libro scritto dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano (Rizzoli Libri - euro 18). Pubblichiamo uno stralcio del capitolo dedicato a Punta Perotti.
Se Bari, da città sull’orlo del disastro, divenne in dieci anni il Comune italiano meglio amministrato, e se io, nell’ultimo anno da sindaco, vinsi l’oscar del bilancio della pubblica amministrazione, lo si deve all’azione politica ma anche all’azione sociale. Fu questa combinazione a farne una città più efficiente, meno costosa per il cittadino, con la tassazione più bassa, con il costo del lavoro minore in assoluto tra le città italiane in proporzione al numero degli abitanti, una capacità di indebitamento intatta, un reddito più elevato. In pochi anni varammo un piano-casa senza paragoni in Italia, costruendo centinaia di alloggi popolari e un intero quartiere, a sud di Bari, in grado di accogliere quindicimila persone, realizzato grazie ad accordi tra pubblico e privato per creare un mix in cui le case popolari si mescolano a quelle di proprietà privata. Lo scopo era eliminare il concetto di quartieri popolari, di quartieri-ghetto, di creare una società più mista, più eterogenea.
Tuttavia, per parlare di ogni battaglia di due mandati da sindaco dovrei riempire interi volumi. Racconterò solo due storie, emblematiche dello spirito con cui affronati il mio nuovo dovere, del metodo di governo e delle enormi potenzialità di un’amministrazione comunale, quando riesce a raccogliere intorno a sé la buona volontà, la forza, la fiducia di una cittadinanza che, e questo vale tanto per Bari quanto per l’Italia intera, è in maggioranza composta da persone capaci, oneste, spesso brillanti.
Punta Perotti era da molti anni uno dei drammi della città di Bari. La costruzione dell’ormai proverbiale ecomostro era cominciata negli anni Novanta ed era stata interrotta a causa dell’enorme impatto ambientale, che aveva portato la magistratura ad avviare le indagini sul progetto: un gigantesco palazzo con due torri di quarantacinque metri, destinato ad appartamenti extralusso. Era stato costruito in maniera longitudinale rispetto alla linea del mare, tanto da diventare noto come «la saracinesca di Bari», perché chiudeva totalmente la vista dell’orizzonte sul lungomare, cosa senza predenti e sgraditissima ai baresi. L’indagine aveva portato alla luce numerose violazioni, era stata accertata l’incompatibilità urbanistica tra il palazzo e la città, e una battaglia giudiziaria molto dura si era conclusa, con una sentenza passata in giudicato in Cassazione, con l’assoluzione dei costruttori imputati, perché in possesso dell’autorizzazione a costruire, ma con il sequestro del terreno e l’ordina di abbattere il fabbricato, perché realizzato in contrasto con la normativa nazionale.
I costruttori avevano fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, contro lo Stato italiano, perché essendo stati assolti ritenevano ingiusta la confisca dei terreni. Mentre si attendeva la sentenza, però, l’ordine di demolire l’abuso restava e andava eseguito, il che creava, a livello cittadino, un non indifferente problema diplomatico: tra gli artefici di Punta Perotti c’erano alcune tra le famiglie più importanti della città; una progettava addirittura di farne la propria residenza, e il sindaco uscente, a sua volta rampollo di una famiglia molto in vista, aveva enormi e comprensibili difficoltà a prendere il toro per le corna. Aveva quindi portato la questione in Consiglio comunale, cercando di ottenere la declaratoria di pubblica utilità dell’immobile: quando infatti un immobile abusivo deve essere demolito, il Comune interessato può dichiararlo di pubblica utilità e quindi acquisirlo e utilizzarlo per i suoi scopi. Che una simile strada fosse stata anche solo tentata, per un terreno e una costruzione dalle enormi potenzialità di mercato, dà l’idea di quanto Punta Perotti non fosse solo una questione economica, ma anche di principio.
Quando fui eletto, quindi, pendeva sulla città l’obbligo di demolire l’ecomostro senza che nessuno avesse mai avuto il coraggio di farlo. Chiaramente Punta Perotti, la battaglia più importante del centrosinistra all’opposizione prima che io diventassi sindaco assieme alla bonifica della Fibronit, era, con il progetto del recupero delle periferie, uno dei tre maggiori impegni che avevo preso in campagna elettorale.
Prima di tutto, tentai di svuotare il problema da ogni connotazione ideologica, di togliere la ruggine delle questioni di principio, dei puntigli, delle ripicche, degli interessi personali. Mi piazzai di fronte a quel brutto edificio incompiuto e pensai che abbatterlo mi dispiaceva. Per due motivi. Uno: quella demolizione era un attacco dritto al cuore dei maggiorenti baresi, e io non volevo attaccare nessuno, nella mia città. Desideravo la pacificazione, per quanto possibile, non la divisione, l’acrimonia, la vittoria di qualcuno a costo di gettare qualcun altro nella polvere. Lo sportivo che era in me sapeva che le partite si vincono o si perdono, ma sapeva anche che ci sono modi buoni o pessimi di essere vincitori e vinti. Il secondo motivo era che distruggere l’opera dell’uomo è una cosa terribile: c’erano stati comunque pensiero e fatica, in quel lavoro di costruzione, e io, facendolo abbattere, ne avrei distrutto il frutto. Avevo troppo rispetto per i lavoratori per prendere una decisione simile a cuor leggero.
Restava il fatto che Punta Perotti era un errore, che privava i baresi della vista sul loro mare, inoltre la magistratura si era espressa e la legge andava rispettata.
















