di MARIA IDA SETTEMBRINO
dI MASSIMO BRANCATI
Il metodo non era quello dello degli spintoni e delle percosse, oggetto di un impianto accusatorio ben definito su cui indaga la Procura di Potenza e che individua come persone offese, i pazienti ricoverati presso il reparto M6 del Don Uva, ma la storia di un’anziana donna del capoluogo lucano che si trova ricoverata all’Unità Operativa per il recupero delle demenze dell’adulto ha delle attinenze molto forti con i fatti dell’inchiesta.
A parlare è il figlio della novantenne che per ovvie ragioni preferisce non dichiarare alla stampa le sue generalità.
«Mia madre soffre di uno stato avanzato di demenza senile con episodi frequenti di catatonia – rivela in esclusiva alla Gazzetta – dopo un lunga degenza all’ospedale San Carlo di Potenza, su richiesta degli stessi sanitari del nosocomio è stata trasferita al Don Uva per essere sottoposta ad un programma di riabilitazione motoria. Posso dire di non aver mai apprezzato i modi di fare del personale medico e paramedico della struttura, sempre poco avvezzi ad ogni forma di garbo nei confronti degli anziani pazienti e sempre molto restii a rivelare in dettaglio le reali condizioni di salute dei ricoverati. Alla fine me ne sono fatto una ragione anche se vedevo mia madre peggiorata a tal punto di alternare momenti di lucidità ad attacchi repentini di isterismo durante la mia assenza. Così, una mattina, era febbraio, mi sono recato come ogni giorno in reparto e stentavo a credere che quella di fronte a me potesse essere mia madre.
Ho visto una persona palesemente priva di sensi, accasciata sulla spalla destra, seduta sulla sedia a rotelle in una stanza vuota, catapultata verso una parete bianca e con i polsi ben fermi, intrappolati in una matrice di ferro. Ho avuto la prontezza di liberarla da quella stato di tortura, ma lei era come sedata, priva di ogni minima reazione. Ho urlato, ero disperato, a pensare che mia madre si trovava lì per recuperare le forze dopo una lunga astenia. Ho avvicinato il primo camice bianco che passava dal corridoio e ho manifestato tutto il mio disprezzo per quanto fosse avvenuto. Mi è stato detto che chi aveva proceduto a quella che io definisco una barbarie, aveva agito per rimediare al fastidio che mia madre aveva dato durante la notte». Da allora, poco è cambiato, per la signora Giuseppina che attualmente si trova ricoverata presso altro reparto della struttura, più specifico per il recupero della demenza, ma da quello che continua a riferirci suo figlio «l’ha scampata per miracolo nel weekend di Pasqua quando si è ritrovata improvvisamente in uno stato comatoso dopo che le è stato iniettato una dose molto forte di un calmante incompatibile con la cura a cui era abitualmente sottoposta».
A rilevare l’accaduto a seguito di un’attenta analisi della cartella clinica sono stati i sanitari del Pronto Soccorso del San Carlo che hanno prontamente rianimato la sfortunata nonnina «mentre il personale del Don Uva – rivela, ancora, suo figlio - continuava a sostenere che si trattava di un fatto del tutto accidentale e che se pure avevano prescritto di iniettare il calmante, come documentato nella cartella clinica, in realtà si erano astenuti dal farlo».