di GIUSEPPE DE TOMASO
Il nipote del Mito è un ingegnere di 75 anni. Dal grande zio ha ereditato solo il nome. Ville, quadri, soldi, immobili: zero. Ma in America e ad Hollywood si è fatto strada ugualmente. Solido conto in banca, fastosa dimora a Beverly Hills, il paradiso dei miliardarì. John Guglielmi Valentino è un professionista di successo, che ha eletto lo «sceicco di Castellaneta» a suo secondo padre. Quando apprende che siamo pugliesi e che abitiamo a pochi chilometri dalla sua terra d’origine inizia a parlare quasi che ci conoscessimo da una vita. Lo incontriamo, a Los Angeles, al Century Plana, a quattro passi da Hollywood. Nell’hotel che Ronald Reagan ha scelto come suo centro uffici postpresidenziale (l’ex capo della Casa Bianca si è trasferito a Bel Air, in un rifugio stracolmo di comfort) sta per incominciare la festa per la consegna — a Sylvester Stallone e a Faye Dunaway — dei premi «Rodolfo Valentino». L’ingegner Guglielmi Valentino parla un italiano eccellente. Dell’illustre parente avrebbe — forse — voluto ereditare il fisico di ballerino. Ma madre natura ha disposto diversamente. Basso, ma non tarchiato, il nipote non se ne fa un problema. La sua principale preoccupazione è tenere al riparo zio Rudy da tutte le malevolenze e maldicenze private e artistiche che sono esplose soprattutto dopo la morte.
Quando Rodolfo nel 1922 ritorna — brevemente — in Italia, dopo essere giunto in America nove anni prima, negli Stati Uniti è già Valentino. In Italia è meno noto, ma ancora per poco. Suo fratello, Alberto, si trova a Campobasso, ennesima destinazione della sua carriera di commissario regio fra i Comuni del Mezzogiorno. Alberto ha un figlio di otto anni, Giovanni, nato a Santeramo in Colle. Rodolfo ha appena finito di girare I quattro cavalieri dell’Apocalisse, la consacrazione a star numero uno di Hollywood. A Campobasso è l’apoteo - si. La «prima» italiana del film è rivolta — insieme con gli incassi — agli orfani della città. Anche da noi, il fascino di Rudy incomincia a far colpo. La famiglia Guglielmi (i fratelli telli Rodolfo, Alberto e Maria insieme con il piccolo Giovanni) torna a ricompattarsi nel 1926 a Londra.
«Mio zio, ormai al massimo della celebrità, — spiega l’ingegnere — aveva bisogno di una persona di fiducia, possibilmente di famiglia, che fungesse da suo rappresentante legale in Europa. Piccolo conciliabolo. La scelta cadde inevitabilmente su mio padre, avvocato, l’unico in grado di curare al meglio i suoi interessi». Alberto si dimette da commissario regio. Il giro d’affari del fratello è così avviato da permettergli persino un passo in avanti nello status economico. «Ma non fu solo l’esigenza di meglio tutelare i propri interessi a spingere mio zio a rituffarsi nella famiglia. Il suo matrimonio con Natacha Ramblova era andato in frantumi. Rodolfo avvertiva il bisogno di quegli affetti più solidi che soltanto il proprio sangue poteva garantirgli». Natacha, donna rigida, ficcanaso e calcolatrice (specie secondo i produttori di Hollywood), aveva procurato a Rodolfo un processo per bigamia (la sua legittima consorte era Jean Acker).
Conclusa la vicenda giudiziaria, i due si sposano nel 1923 e partono, subito, in Europa per una luna di miele da mille e una notte, di cui parla la stampa di mezzo mondo. A Milano, la coppia incontra la sorella di lui. Maria. S’avverte il contrasto fra i due mondi. Maria si scandalizza perché la cognata non porta la fede nuziale. A Castellaneta, i due rimangono dieci giorni. «Dopo il divorzio da Natacha, mio zio — continua John — ci ospitò per sei mesi a Beverly Hills, nel famoso Falcon Lear (“Nido del falco”). Ero il suo unico nipote. Diventava per me il secondo padre. Lasciammo Los Angeles per New York, dove Rodolfo doveva presentare il film II figlio dello sceicco. Mio padre si trovava a Parigi, nell’ufficio di rappresentanza. Subito dopo, io e mia madre ritornammo in Italia. I miei genitori tenevano al fatto che terminassi gli studi nel nostro Paese». Il piccolo John non vedrà più lo zio.
«Il 15 agosto del ‘26 ricevemmo un telegramma dal manager di zio Rodolfo, nel quale era scritto che Rodolfo si trovava in gravi condizioni di salute. Mio padre prese subito il treno per Parigi, per poter poi partire con un piroscafo verso l’America. Ma nella capitale francese i giornali sono già usciti con un titolo a caratteri cubitali: “Rodolfo Valentino è morto”». Otto giorni prima, lo «sceicco» era stato ricoverato per una ulcera gastrica. Ma un collasso gli fu fatale. Costernazione ed incredulità in America. Edizioni straordinarie dei giornali. Gente che «impazzisce». Pianti, crisi isteriche, macchine rovesciate, suicidi. Una folla di ammiratrici prima assale l’hotel Ambassador dove l’idolo si è spento, poi la chiesa dove si svolge il rito funebre. Non si era mai assistito — in precedenza — a simili esplosioni di fanatismo. Il patrimonio del Mito è ingente: un milione di dollari (del 1926!) in contanti, la villa a Beverly Hilìs, una casa a Hollywood, appartamenti, gioielli eccetera eccetera. Erede universale di questa fortuna —secondo la volontà dello scomparso è John, che nell’autunno di quello stesso anno ha iniziato a frequentare il ginnasio a Torino.
Ma il «regalo» dello zio d’America non farà di lui un ragazzo ricco. «Di quei soldi io e la mia famiglia non vedemmo neppure l’ombra. Il testamento, di fatto, servì agli avvocati per sistemare le pratiche legali e rimediare alle truffe dell’ammini - stratore dei beni e dell’at - tività di mio zio. Le sue abitazioni furono vendute dalla Banca d’America. Oggi sul suolo di “Falcon Lear” c’è un edificio di 20 appartamenti. Certo, mio zio aveva qualche debito, ma la somma non raggiungeva, sicuramente, il milione di dollari... ».
I Guglielmi sono sul punto di ripartire per l’Italia. Ma all’ultimo momento, Alberto cambia idea. Preferisce restare nella terra che ha reso grande suo fratello. «Non c’è alcun valido motivo per lasciare la California», riflette. Finito il liceo a Torino, il figlio lo raggiunge a Los Angeles. Si iscrive a Ingegneria. Si laurea. Ma non è ancora iscritto al sindacato degli ingegneri fonici. Inizia, perciò, la sua carriera alla Metro Goldwin Mayer (il simbolo della cinematografia di Hollywood) come fattorino. Andrà in pensione, ricco e affermato, agli inizi degli anni Ottanta.
In tutti questi decenni, John Guglielmi (adesso anche Valentino) si trasforma nel principale difensore della reputazione dell’illustre parente. «Tranne pochissime eccezioni, tutte le rappresentazioni cinematografiche e teatrali del fenomeno Valentino sono state realizzate da speculatori, da gente senza scrupoli vogliosa di far rumore oltraggiando la verità. Qualcuno lo ha raffigurato come un omosessuale, qualcun altro come un playboy. Solo calunnie. Metodi per fa cassetta. E poi, come potevano descrivere mio zio, se non lo hanno mai conosciuto? Mio zio, tra l’altro, aveva un culto quasi religioso per la privacy. Altro che scandali e amori spiattellati ai quattro venti. Valentino non era né un omosessuale, né un playboy. Era soltanto un uomo normale, che ha amato una donna per volta».
Ingegnere, ci perdonerà, ma gli amori sono stati numerosi e sempre discussi... C’è stato pure un processo per bigamia... E poi un duello con un giornalista che metteva in dubbio la sua mascolinità... «Vogliamo scherzare?», s’infervora l’ingegnere. Mio zio era un uomo buono. Certo, il successo attira invidie. Semmai, è stato preda di donne calcolatrici. Quanto ai pettegolezzi sulla sua mascolinità, fanno parte della sentina di Hollywood. Si tratta solo di gratuite e calunniose insinuazioni».
L’onore del latin lover, del prototipo del maschio latino, è salvo. Tutto ok, dunque? Era senza difetti il nostro eroe? «No, non voglio dir questo. Mio zio aveva un carattere difficile, irascibile. Forse perché era un perfezionista. Era ambizioso incontentabile. Voleva evadere. Per questa ragione trovava l’Italia troppo piccola per le sue vedute. Da ragazzo sognava l’America. Pensava anche di trasferirsi nell’America del Sud, dove viveva un suo parente. Poi si è fermato qui».
Valentino junior non è «orfano» soltanto del suo secondo padre, ma anche di un’epopea — quella hollywoodiana tramontata dopo l’avvento del big business. «Oggi la Hollywood con i capannoni e gli studi della Mayer e della Fox non esiste più. Tutto è cambiato. L’unico mito è il denaro, non il divo. Posso dirlo io che come ingegnere elettronico diventato tecnico del suono ho curato gran parte della produzione cinematografica californiana ». Lo spettacolo sta per incominciare. Il «bravo presentatore » americano chiama a sé John Guglielmi Valentino. Il tempo di un arrivedercl. «Soltanto una volta nella mia vita sono venuto a Castellaneta, fra le mie radici. Spero di ritornarci quanto prima...».
















