Vieni, Miuccia Prada, apri quelle vetrine enigmatiche di avveniristico vintage. Annunciano da troppo tempo l’apertura del negozio in via Sparano angolo via Dante. Basta, vieni e portaci quel vento rosso da Quarto Stato perché tutto il mondo sa che sei compagna. Sfilavi nei cortei vestita Yves Saint Laurent. E conciliando «ricchezza e impegno, potere mercantile e glamour», ti sei arroccata sul trono radical chic con un paradosso inestricabile: «Finiamola con la sinistra snob di Pisapia». Che coltiviamo bene anche da queste parti.
Vieni, Miuccia Prada: vieni. Te lo chiedono i ricchi. Te lo chiedono gli umili. Te lo chiedono i superbi. Te lo chiedono quelli che campano, che tirano il carro, quelli che incespicano sull’Imu addizionata. Tutti vogliono una Miuccia Prada a Bari.
Vieni, Miuccia, vieni. Un murmure s’inerpica tra l’erte spire dei desiderata nel Levante, direbbe – forse - il D’Annunzio, nanuncolo trasudante maniacalità sessuata. Vieni, Prada, quante cose faremo assieme, noi baresi grezzi e tu così splendidamente, semplicemente miuccesca anzi miucciana.
Non lo sai ma, più che di rado, spesso un musicante girovago si siede su una seggioletta malferma come il passo di un rachitico a piè delle tue vetrine, vestito nero becchino o cornacchia. Sfrega il suo violino barivecchiano, anima la fissità delle tue modelle sui manifesti giganti, stuzzica le scritte dell’Avvento: «Prada, Milano – Next Opening». Ti suona la serenata, e, più di noi, attende trepidante. Non andrà più a bussare alla Federazione regionale di Rifondazione comunista, vicino a Giurisprudenza in via Fornari. Si è reso conto che il rosso urtante delle pareti della sede mal si bilancia col marmo camposanto. Ha trovato una casa nuova, sorgente, di gran gusto, «modaiola ma nonostante tutto democratica». E siede al tempio, si abbevera alla maison più impegnata d’Italia di una compagna che gli è sorella o quasi.
Vieni, Miuccia, apri, non possiamo più aspettare. Non vediamo l’ora di procedere in corteo sotto i sigilli della Cgil con ai piedi i tuoi stivali, coi foulard «must have», e mulinare le borsette da 2300 euro con furia metalmeccanica per assestare colpi ai celerini, e sentirci finalmente parte della dignità operaia, col vento della rivoluzione tra i capelli, illuminati come la chioma di Diego Della Valle o il sorriso turchino di Benetton, infiammati da filosofie di tendenza retrò intramontabile e gridare a pugno chiuso passando sotto le gambe delle fotomodelle erette sui cristalli in via Sparano: «Salario sociale, salario sociale!», come quelli dei centri occupati, o di Casa Pound, è uguale.
Vieni, Prada, ti hanno eternato perfino Meryl Streep e il Demone e il Met e gli artisti più trendy che anelano a creare come Dalì e la Schiaparelli una mitologica accoppiata. Senza te non respiriamo. Ai saldi pianteremo le tende nella fioriera prospiciente, pronti a uccidere per mantenere il posto in coda al punto vendita sovrano. Ecco, temo che a quel punto, col negozio a regime, il violinista vagante dovrà traslocare. Qualcuno gli domanderà se è veramente di sinistra. Lui risponderà: «Non sono abbastanza ricco». Potrebbe anche essere poco colto, a pensarci, non raffinato, pacchiano nel vestiario, e «chi veste male – come insegni – è anche ignorante». Poco attento «a essere mai cheap, banale».
Non sappiamo quanto calzerebbe in un salotto grandi affari con rappresentanze assessorili e bancarie. Probabilmente non ha neppure trascorso le vacanze di Natale nel bungalow di Michele Santoro da 1500 euro a notte, atollo di Cocoa Island. Nessuno può essere sicuro che citi Bauman o Bellezza e Pasolini come necessario. Non ha l’erre arrotata. Di sicuro non calza Church’s e Adler, lo abbiamo esaminato. Non ha un incedere da passerella Moda Milano. Ora, nessuno vorrebbe che tu, Miuccia Prada, ti tirassi indietro causa persistenza di tale materiale umano. Apri questo negozio, avanti. E al violinista ci penseremo noi nel caso, e poi lo piangeremo insieme con singhiozzi fashion.
















