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Addio «folgorino» Vetrugno ultimo reduce di El Alamein

Addio «folgorino» Vetrugno ultimo reduce di El Alamein

 
Addio «folgorino» Vetrugno ultimo reduce di El Alamein

Venerdì 24 Agosto 2012, 18:38

03 Febbraio 2016, 01:28

BARI – Il suo brevetto di parà della Folgore, di cui è sempre stato orgoglioso, porta il numero 42. Lo conseguì nel 1941, l’anno in cui partecipò all’operazione «cielo di Cefalonia». L’anno successivo era a El Alamein: fu uno dei pochi sopravvissuti di quella battaglia. Poi, fu fatto prigioniero dagli inglesi. Oggi il maresciallo Mario Vetrugno, «folgorino» della prima ora, è morto in Puglia, la sua regione, all’età di 95 anni. Qualche anno fa fece notizia la sua discesa in campo a difesa del Tricolore e dell’Inno nazionale, in occasione di una delle tante polemiche: «Molti – disse Vetrugno in un’intervista – non sanno che noi italiani sui campi di battaglia siamo stati davvero 'Fratelli d’Italia' e abbiamo combattuto per il tricolore, abbiamo messo i nostri cuori nel tricolore ed abbiamo pianto sul tricolore. Bandiera e inno di Mameli fanno parte della nostra identità: non c'è Italia senza tricolore e senza inno di Mameli». 

Nell’album dei ricordi del maresciallo Vetrugno un posto importante aveva la data del 30 aprile 1941 quando, giovane paracadutista, si lanciò con un manipolo di colleghi della Folgore su Cefalonia. «Quando prendemmo Argostoli, capoluogo dell’isola – raccontava – io ed altri tre paracadutisti della Folgore ci recammo subito al palazzo della prefettura. Dal pennone tolsi la bandiera greca, presi dalla mia giubba il tricolore e lo issai. Uno di noi era trombettista, suonò l'attenti ed in quattro, commossi, rendemmo onore alla nostra bandiera». 

Poi c'è il drammatico racconto della battaglia di El Alamein: dei circa cinquemila parà della Folgore, si salvarono in poco più di trecento, «ma alla resa i ragazzi ebbero l'onore delle armi». «La sera del 3 novembre 1942 – questi i ricordi del 'folgorino' – mi fu affidato il comando di cinque uomini. Mentre le nostre truppe rimasero in un luogo più arretrato, chiamato caposaldo, noi cinque raggiungemmo un punto avanzato di osservazione per controllare i movimenti nemici in una sacca dell’area di El Alamein. Per due giorni non arrivò il rancio e sospettammo che alle nostre spalle potesse essere accaduto qualcosa di grave. In realtà, le nostre truppe, temendo di essere accerchiate dal nemico, si erano spostate altrove, ma avevano già avuto perdite gravissime. Provammo a raggiungere i nostri compagni, poi ognuno proseguì per la sua strada tentando di evitare la morte e la cattura. Io caddi ben presto nelle mani degli inglesi: passai per tre campi di concentramento, evasi tre volte, tre volte fui ripreso. Sul punto di essere trasferito in India, fui trattenuto ad Alessandria d’Egitto perchè sapevo guidare i mezzi militari. Finii in Libia e, infine, nel 1946 fui rimpatriato a Napoli. Ogni giorno, al risveglio, mi passano per la mente i cadaveri di tanti colleghi che ho visto sterminati dal nemico. Ognuno aveva nella giubba il tricolore, e tante bandiere italiane si sono macchiate del sangue dei 'folgorini'».
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