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Toki, il rapper barese che racconta la mala e  dice: «non delinquere»

Toki, il rapper barese che racconta la mala e  dice: «non delinquere»

 
Toki, il rapper barese che racconta la mala e  dice: «non delinquere»

Martedì 05 Ottobre 2010, 09:25

02 Febbraio 2016, 22:22

di NICOLA MORISCO 

La cattiva strada si evita con l’hip-hop «gomorrico» di Toki. I suoi video, in cui compaiono le immagini cruente del film «Gomorra» di Matteo Garrone o di «Lacapagira» di Alessandro Piva, stanno spopolando su youtube: oltre duecentomila contatti in pochi giorni e tra i fan c’è anche il sindaco di Bari, Michele Emiliano. Parliamo del trentunenne barese Giuseppe Polisen o, in arte Toki - nome preso in prestito da un personaggio di un cartoon giapponese - rapper che si sta imponendo in rete con brani cantati in barese e in italiano, testi in cui si raccontano le realtà delle periferie e, soprattutto, della malavita il cui messaggio chiaro e netto è «evitare di delinquere». 

Toki ha vissuto subito le insidie che la strada offre: «Da piccolo mi recavo da solo a scuola, con tutti i rischi che comportava », ricorda. Vivendo molto per strada, pur lavorando per suo padre salumiere, Toki ha rischiato di imboccare brutte strade, ha conosciuto la delinquenza dei diversi quartieri della città e ha imparato a difendersi con lo stesso linguaggi. Poi, guardando alcuni film, si è appassionato alla breakdance e ha abbracciato la scena hip-hop barese. Due anni fa, invece, l’incontro con il rap, genere col quale si trova subito a suo agio e i cui risultati sono ora sotto gli occhi di tutti. 

Nei suoi video c’è molta durezza, non crede che sia un cattivo messaggio? «Ho visto e apprezzato film come quello tratto dal romanzo di Roberto Saviano, nei miei video autoprodotti, cerco di mettere la verità di certe realtà che in parte ho anche vissuto. Le immagini cruente e reali, aiutano ulteriormente a comprendere che da certe devianze bisogna stare il più lontano possibile».

Si è pentito di avere lasciato la scuola dopo la licenza media? «Ho vissuto sempre per strada e, nonostante tutto, parlo discretamente l’italiano. Certo, sono pentito di avere lasciato gli studi: una buona cultura aiuta molto nella vita, soprattutto per migliorare le proprie condizioni umane e sociali. Ho sempre preso alla lettera un insegnamento dei miei genitori: ho cercato di frequentare la gente migliore di me, anche se a volte la vita ti porta a prendere strade diverse. Ho avuto qualche problema con la legge: alla fine quello che hai fatto lo paghi. Così nei testi racconto ai ragazzi la mia vita, le mie debolezze, le mie tentazioni e i miei errori che prima o poi si scontano e non bastano i soldi per salvarti e mettere a posto la coscienza». 

La musica è stata la sua àncora di salvezza? «E’ stata determinate insieme alla passione per le arti marziali. La prima canzone che ha trovato riscontro nel pubblico è stata “Malavita”. Molti mi chiedevano se le mie intenzioni erano quelle di inneggiare al malaffare, invece non è così. E’ stata una sorta di provocazione a tutti quei gruppi della scena hip-hop barese che si sentivano dei gangster, ispirati ai malavitosi, che con prepotenza colpivano le band formate da bravi ragazzi. Avendo alle spalle l’esperienza della strada, ho scritto “Malavita” contro questa forma di bullismo». 

Conoscendo certe realtà, col rap vuole trasmettere un messaggio di distacco da queste devianze? «Certo, a differenza di altri rapper, che scrivono testi utilizzando le fonti di informazione o addirittura per sentito dire e magari vivono a Bari Alto o a Parchitello, io conosco il linguaggio, la gestualità il modo di fare di certi personaggi e ambienti. Nelle mie canzoni quindi, cerco di trasmetterli così come sono nella realtà ma, allo stesso tempo, mostrando la cruda realtà, lancio un messaggio positivo: evitare la delinquenza, lavorare e avere interessi e passioni». 

Com’è nata l’idea di scrivere un testo in barese? «Ho sempre scritto testi in italiano, ma avendo un amore smisurato per Bari e i suoi quartieri, a iniziare dal mio San Pasquale, mi è venuta voglia di scrivere delle parole che lasciassero un segno. Il mio grande sogno è che diventi un inno per tutti i baresi e non solo. Molti mi hanno detto che nel testo ci sono consigli, saggezza popolare dei detti ormai dimenticati: insomma c’è l’orgoglio di essere barese. Poi c’è anche chi mi dice che solo io posso fare il gangster rap, perché vengo realmente dalla strada». 

Quali sono i suoi punti di riferimento musicali e quanto l’ha influenzata la scena pugliese del passato? «Ascolto rap americano e qualcosa di francese, ma non conoscendo le lingue preferisco gli artisti italiani come Marracash, Noyz Narcos e Inoki. Non credo di rappresentare la continuità di quella scuola capeggiata da Pooglia Tribe, anche perché sono passati tanti anni. Peccherò di presunzione, ma credo che il mio genere non assomigli a nessuno, almeno il mio modo di cantare e di scrivere e diverso dagli altri. Poi, dall’alto della mia ignoranza non riuscirei a copiare, scrivo quello che sento, spero al meglio».
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