Un Europeo mai visto prima. Per festeggiare i sessant'anni del campionato. È l'era del calcio itinerante, della competizione globale. Undici città e una Coppa. Idea affascinante e, al tempo stesso, faticosa e rischiosa in questi tempi di Covid. Stadi che riaprono e Nazionali che si infettano, gente che farebbe carte false pur di esserci e calciatori in isolamento. Immagini naturali del calcio al tempo del virus, la straordinarietà che diventa normalità.
E c'è anche l'Italia, la nuova Italia di Mancini. Un paese che riparte, il ritorno dei tifosi, un'atmosfera diversa. Sembra di respirare la stessa aria che animò l'edizione dei Mondiali del 1990, quando impazzavano la Nannini e Bennato, gli Azzurri erano fra i migliori e finirono simpaticamente sconfitti nella semifinale del San Paolo contro l'Argentina di Maradona. Questa volta l'Argentina non c'è e purtroppo neanche Maradona.
C'è voglia di Italia. C'è voglia di stringersi attorno a «qualcosa» che possa contribuire ad allontanare l'ansia da pandemia che da oltre un anno ci fa prigionieri. C'è voglia di abbracciare idealmente un gruppo di calciatori che accompagni tutti noi oltre la paura. Almeno per la durata della partita, per la durata dell'Europeo.
Il rapporto fra l’Italia e gli italiani si era irrimediabilmente compromesso nella notte di San Siro, novembre 2017, quando la Svezia sancì l’esclusione degli Azzurri di Ventura dal Mondiale di Russia. Un’offesa alla storia dell’italico pallone, la Nazionale e i tifosi come separati in casa. A Mancini va dato atto di aver avviato, e portato a termine con successo, l’operazione simpatia. Con pazienza, lungimiranza nelle scelte, il tecnico e i suoi ragazzi hanno avuto il merito di ricostruire il rapporto con il pianeta-tifo. Questa è una squadra che fa simpatia, gioca un calcio gradevole, lontano dalle nostre tradizioni. Ispirato alla proposta più che all’attesa. Certo, il percorso di avvicinamento alle fasi finali non è stato dei più complicati. Molti, forse troppi, gli avversari di terza e quarta fascia incrociati. Ma vincere aiuta a vincere. «Una rivoluzione che non arriva alle sue ultime conseguenze è perduta», amava dire Che Guevara. La sua rivoluzione, l’Italia del calcio l’ha già vinta: è riuscita a far scattare di nuovo la scintilla della passione.