Pubblicato in «Gazzetta ufficiale» il 20 maggio del 1970, lo Statuto dei lavoratori compie cinquant’anni. Un anniversario che l’associazione «La Giusta Causa», presieduta da Michele Laforgia, ricorderà oggi pomeriggio (ore 18) in diretta Facebook coinvolgendo nel dibattito l’ex segretaria della Cgil, Susanna Camusso, il magistrato Angela Arbore, l'avvocato Gianni Di Cagno e il giuslavorista Roberto Voza, direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari. «Non si tratta - osserva quest’ultimo - solo di celebrare una ricorrenza ma di riflettere sulla tutela del lavoro attraverso una delle sue leggi più importanti».
Professor Voza da dove cominciamo?
«Dal Congresso dei chimici della Cgil nel ‘52. In quell’occasione, Giuseppe Di Vittorio lanciò l’idea di uno Statuto dei diritti, delle libertà e della dignità dei lavoratori»
Come possiamo leggere quella proposta?
«Vista la centralità del lavoro nella Carta, si può dire che la fabbrica era già entrata nella Costituzione. Era necessario, però, che la Costituzione entrasse in fabbrica, secondo una nota formula».
Da lì in poi cosa successe?
«L’idea rimase nel cassetto fino al 1963 cioè fino alla costituzione del primo governo di centrosinistra guidato da Aldo Moro che inserì lo Statuto nel programma. Ma non fu un percorso facile né immediato».
Cosa provocò un’accelerazione?
«Certamente il biennio 68-69 fu cruciale. Non solo per il ruolo dei movimenti ma anche per la maturazione dell’idea di uno Statuto dei lavoratori nella società. Ci furono pure alcuni eventi, come ad esempio l’eccidio di Avola nel dicembre del ‘68. Qualche giorno dopo, proprio ad Avola, il ministro socialista Giacomo Brodolini si impegnò solennemente a varare lo Statuto. E sa chi c’era accanto a lui quel giorno?».
Chi c’era?
«Il giuslavorista Gino Giugni, a cui i braccianti regalarono un cesto di limoni e arance. Pochi giorni dopo Brodolini costituì la commissione, presieduta proprio da Giugni, cui affidò il compito di elaborare il disegno di legge. Lo Statuto fu il perno di una grande stagione, iniziata nel ‘66 con la legge sui licenziamenti individuali e conclusasi nel ‘73 con la riforma del processo del lavoro. Per inciso, furono gli anni in cui Giugni insegnò a Bari».
Cos’era, alla fine, lo Statuto?
«Era il frutto della congiunzione tra cultura giuridica e movimento di massa, una legge portatrice di libertà, come quella sul divorzio o la riforma del diritto di famiglia. L’accostamento non è casuale: il Codice civile del 1942 pronunciava due volte la parola “capo”, in riferimento proprio a marito e imprenditore. Quell’idea, imperniata sul principio di autorità, fu superata. Nel merito, invece, lo Statuto coniuga la protezione dei diritti fondamentali del singolo con la promozione della presenza dei sindacati nel luogo di lavoro».
Di tutto questo cosa resta ora?
«C’è una parte dello Statuto, quella che tutela la libertà e dignità del lavoro, che non presenta rughe, perché non è collegata al contesto economico-produttivo in cui la legge fu emanata, il fordismo, per intenderci»
E le rughe dove si vedono invece?
«Il lavoro è cambiato, i confini dell’impresa si sono dissolti e la tappa più recente, quella dell’economia digitale, rischia di far crollare le ultime barriere».
Lo Statuto serve ancora?
«Serve, certamente, ma non basta. Ci vogliono regole nuove per affrontare fenomeni nuovi, ma soprattutto è necessario che queste regole raggiungano anche soggetti ora esclusi».
Negli ultimi vent’anni però si è assistito a un percorso chiaramente regressivo...
«C’è stato un fenomeno globale di riduzione delle tutele. Il problema è che il lavoro soffre di una perdita di centralità per effetto dell’avanzare delle ragioni del mercato e dell’economia».
Addirittura c’è chi ha pensato di superare il lavoro con il reddito di cittadinanza.
«Al centro rimetterei il valore del lavoro, come strumento di affermazione della persona e dell’identità sociale di ciascuno».

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