Lunedì 29 Dicembre 2025 | 18:44

Carta vincente, ma truccata la Somalia torna in scena nella geopolitica mondiale

Carta vincente, ma truccata la Somalia torna in scena nella geopolitica mondiale

 
carmen lasorella

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carmen lasorella

Carta vincente, ma truccata la Somalia torna in scena nella geopolitica mondiale

Con i suoi settecento e passa chilometri di costa, affacciati sul Golfo di Aden e i soldi israeliani, il Somaliland potrebbe cavalcare un futuro straordinario e terribile, nell’ennesima alterazione degli equilibri geopolitici e commerciali, sia locali che globali

Lunedì 29 Dicembre 2025, 16:20

La Somalia torna sulla scena. Oggi, lunedì, su sua richiesta al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite si terrà una riunione di emergenza, sostenuta dai paesi del Corno d’Africa, da quelli del Golfo, dall’Iran, dall’Egitto, dalla Turchia, dalla Cina e altri. Accade che Israele, primo e unico paese al mondo, nei giorni distratti delle festività natalizie, abbia riconosciuto il Somaliland come stato indipendente. A beneficio di noi tutti, ma anche del presidente Trump - che richiesto di un commento dal Whashington Post ha dichiarato testualmente: «DoesanyoneknowwhatSomalilandis, really?», vale a dire: qualcuno sa veramente cosa sia il Somaliland?- è presto detto: il Somaliland potrebbe essere la carta vincente, benché truccata, che spariglia il gioco in una vastissima area di mondo. Nella visione strategica, che certo non gli fa difetto, il presidente Netanyahu l’ha usata senza scrupoli e a sorpresa, creando un allarmato sbigottimento generale. Parliamo di un territorio, che si era messo in proprio nel lontano 1991, con la Somalia di Siad Barre allo sfascio, creando la sua amministrazione, battendo la sua moneta ed armando le sue milizie, mentre la Somalia si dissanguava in conflitti pseudo-tribali, mai finiti, nel totale disinteresse internazionale, riacceso successivamente in quell’area dal terrorismo dei gruppi amati yemeniti houthi, arroccati sulla sponda opposta.

Con i suoi settecento e passa chilometri di costa, affacciati sul Golfo di Aden e i soldi israeliani, il Somaliland potrebbe cavalcare un futuro straordinario e terribile, nell’ennesima alterazione degli equilibri geopolitici e commerciali, sia locali che globali. Lo storico porto di Berbera, già crocevia marittimo nel Medioevo, diventato con la guerra degli anni ‘90 centrale di traffici di ogni genere, in particolare di armi - nelle intenzioni di Netanyahu- potrebbe diventare l’hub imprescindibile (e costoso per gli altri) sotto il suo pieno controllo, ma a beneficio anche degli americani, sulle rotte sempre più trafficate all’imbocco dello stretto di Bab-el-Mandeb, che dall’Oceano Indiano apre al Mar Rosso e dunque al Mediterraneo. Si aggiungerebbero gli impieghi sul piano della sicurezza e soprattutto il potenziamento di basi militari e logistiche israelo-americane, a danno della Cina e dei paesi musulmani.

Nella sostanza, uno sconquasso, del quale probabilmente si sta rendendo conto anche Trump, che delle iperboli è maestro. Perché un’iperbole? La parola non è usata a caso. Ci troviamo di fronte ad una esagerazione che modifica una realtà codificata: si può riconoscere come stato indipendente un territorio, che decide arbitrariamente la sua secessione? La risposta è no. Se passasse il principio, potrebbe spalancarsi una voragine. La Catalogna, per esempio, potrebbe - come da sempre auspica- staccarsi dalla Spagna e venire riconosciuta da un paese arabo o sudamericano, che ne finanzia lo sviluppo per i suoi interessi nel cuore dell’Europa. L’economia fa già la sua parte, a prescindere dalle fedi e dalla storia, ma il dato politico non si tocca: l’integrità territoriale non è solo quel principio fondamentale del diritto internazionale, riconosciuto dai trattati; esprime il valore delle nazioni e dei popoli, la stessa natura dello Stato, come la tragedia in Ucraina ci ricorda da quattro anni, ogni giorno, tuttora aggrappata ai confini del Donbass, forse l’ultimo ostacolo sulla strada della pace preferibile alla guerra. La rinuncia all’inviolabilità dei confini significa destabilizzazione globale. Caos. È di questo che si parlerà nella riunione urgente, convocata dalla Somalia al Palazzo di Vetro dell’ONU, nella comprensibile agitazione internazionale.

Le Nazioni Unite, che ne riconoscono il principio nella propria Carta all’art. 2, comma 4, così come risulta anche nella Carta di Helsinky, firmata cinquant’anni fa in Europa, non potranno che confermarlo. E allora? Al presidente del Somaliland, un diplomatico con cittadinanza finlandese, Mohamed Abdullahi, arriverà una convocazione a Mogadiscio, dopo l’invito di Netenyahu a Gerusalemme? E poi? Nella fase di profonda inquietudine e di minacce continue all’ordine internazionale, distribuite sui tanti scenari, che su un mappamondo luminoso vedrebbero luci rosse accese a decine nei quattro punti cardinali, anche una provocazione come quella di Israele – è di provocazione che preferiamo parlare- potrebbe avere un effetto dirompente. Intanto, se -come pare- proprio quel paese diventasse la meta della deportazione dei palestinesi di Gaza, «l’esodo agevolato» secondo la propaganda fondamentalista, che ha annunciato nuovi insediamenti israeliani nel nord della Striscia, attualmente già ridotta al quaranta per cento del suo territorio originale, (la tregua viene violata quotidianamente dall’esercito israeliano e dai coloni, con il numero delle vittime palestinesi che aumentano e gli aiuti previsti regolarmente negati) non ne sarebbero quantificabili le conseguenze. In un territorio fragile come quello del Somaliland, attualmente di economia povera e povero di sicurezza, si innescherebbe una bomba ad orologeria. Il terrorismo di Hamas, è tutt’altro che spento. Sicuramente decapitato, ma non disarmato, anzi alla ricerca di nuova leadership e soprattutto di riscatto. Le notizie sulla rete dei fondi raccolti all’estero, anche in Italia per sette milioni di euro e degli arresti dei fiancheggiatori coinvolti, con accuse strumentali contro i pro-Pal, piuttosto che sporcare la solidarietà di quanti rimangono al fianco dei palestinesi e del loro destino odioso, dovrebbero far riflettere sulle potenzialità ramificate dell’organizzazione terroristica, che riesce a insinuarsi ovunque, appena può. Sembra essere diventata una prerogativa dei fondamentalismi, di segni e fedi diverse, come denunciano inchieste e studi sia europei, sia americani: trovano sostegni massicci ad ogni latitudine, a cominciare dall’occidente.

Piacerebbe trovare una nota di ottimismo in queste ore di fine anno, magari coltivando il proprio giardino -come suggeriva Voltaire -ovvero a cominciare da quanto abbiamo intorno a noi per migliorarlo, ma serve spingersi lontano per fare il pieno di energia. Non serve subire la guerra per cercare la pace. Pare che ci sia un popolo che vive tra le centinaia di isole del Mare delle Andamane, tra la Birmania e la Tailandia, che ha imparato a vivere con quello che ha. Il loro nome è Moken. Non rubano ai vicini, né invidiano i parenti. Sono una piccola-grande comunità operosa. Studiano la natura e la rispettano. Hanno resistito perfino allo tsunami del 2004, grazie alla conoscenza dei fenomeni naturali, arrivando per tempo con le loro barche su quelle isole che non sarebbero state travolte dalle onde. Li chiamano i «Gitani del Mare». Non serve cercarli. Si sposteranno più lontano. Per loro, la cosa più importante è difendere la libertà. Per noi? Buon Anno!

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