Ci vollero il genio, la forza politica e la faccia tosta di Amintore Fanfani per espropriare nel ‘49 il ministero dei Lavori pubblici del più gigantesco e avveniristico Piano casa della storia italiana.
Fanfani era ministro del Lavoro e in effetti assegnare una casa di edilizia pubblica – ieri come oggi – a chi ne ha bisogno e ha risorse economiche limitate è una grande iniziativa sociale. Sottosegretario di Fanfani era Giorgio La Pira, che sarebbe stato uno straordinario e controverso sindaco di Firenze e «uomo di pace» che rappresentava la punta più avanzata del solidarismo cristiano.
Fu impegnato il meglio dell’architettura italiana in una sorta di inedito e irripetibile compromesso storico. Per i primi tre anni direttore generale del progetto fu Adalberto Libera, uno degli esempi migliori del razionalismo fascista. (Libera progettò il meraviglioso arco che avrebbe dovuto avvolgere all’Eur gli edifici destinati all’ E 42, l’esposizione universale abortita per la guerra. Quando come curatore di una mostra sulle leggi razziali mostrai a Giorgio Napolitano, capo dello Stato, il progetto di Libera che nessuno ha avuto mai il coraggio di realizzare, lui sospirò ammirato: «Libera era Libera…»).
Ma accanto a Libera c’era il meglio degli architetti vicini al Pci, a cominciare da Italo Insolera. Invece degli orridi casermoni dell’architettura progressista dei decenni successivi, il Piano Casa cercò di rispettare le caratteristiche ambientali delle diverse regioni e località italiane, coinvolgendo anche le piccole imprese e l’artigianato.
Perché suoni di monito e di esempio ai burocrati d’oggi, pubblicato dalla Gazzetta ufficiale il 3 marzo 1949, il Piano Casa vide aprirsi il primo cantiere nell’estate dello stesso anno. In autunno i cantieri erano già 650. A regime venivano completati 2800 appartamenti a settimana.
Nel 1956 – alla fine dei sei anni previsti dalle legge – erano stati consegnati 147mila alloggi che diventarono 355mila dopo i secondi sei anni. Ventimila cantieri aperti. 41mila operai all’anno occupati stabilmente nel periodo. Per bollinare le opere con un marchio di qualità, a ogni edificio furono applicate formelle in ceramica affidate per concorso ai maggiori pittori italiani: Un nome su tutti, Alberto Burri.
Possiamo sperare che il miracolo si ripeta? A suo tempo, il complesso meccanismo di finanziamento pubblico-privato faceva capo a Ina-casa, braccio del colosso assicurativo pubblico. Non siamo esperti di questi meccanismi, ma se invece di chiedere contributi a freddo alle banche (al di là della demagogia, suona sempre male sui mercati) si dirottassero questi e altri importi ancora maggiori al finanziamento del Piano Casa con equa remunerazione, potremmo davvero dare un segno di svolta.
Il punto è un altro: abbiamo una burocrazia in grado di permettere la costruzione di 2800 appartamenti a settimana?